Imprenditoria

La paura di mettersi in proprio: «Il lavoro ha perso la sua centralità»

Sempre meno giovani ambiscono a svolgere una professione indipendente: è quanto emerge da uno studio sulla carenza di personale presentato questa mattina a Berna all’Associazione svizzera delle libere professioni
©Chiara Zocchetti
Francesco Pellegrinelli
28.10.2025 11:00

È uno spaccato sociale che invita alla riflessione quello che emerge dallo studio presentato questa mattina a Berna dall’Associazione svizzera delle libere professioni (ASLP) sulla carenza di personale qualificato in Svizzera. Un tema noto a vari livelli ma che, in questo caso, mette in evidenza il fenomeno prendendo in analisi unicamente le libere professioni, come il medico, il notaio, l’avvocato, l’ingegnere ma anche lo psicoterapeuta, lo psicologo e il dentista.

Che cosa emerge, quindi, dal sondaggio realizzato dall’istituto di ricerca BSS? Innanzitutto, sette intervistati su dieci segnalano che la carenza di personale qualificato è di gran lunga il problema principale delle loro attività professionali. «Dopo la pandemia si pensava che si trattasse di una difficoltà temporanea. Oggi invece ci rendiamo conto che è un fenomeno strutturale, e lo studio lo evidenzia in modo chiaro», commenta al CdT Marco Taddei, segretario dell’ASLP.

Salariato o indipendente?

Ma c’è un secondo elemento che emerge con particolare evidenza dal sondaggio realizzato tra aprile e giugno 2025 su un campione di oltre 3.600 professionisti: il fatto che sempre meno giovani ambiscono a svolgere una professione in proprio. «Abbiamo intervistato giovani studenti di medicina, diritto, architettura e psicologia. I risultati confermano una tendenza generazionale ormai evidente, ossia che l’importanza attribuita al lavoro indipendente è in calo”, dice Taddei. L’inchiesta mette però in luce anche un aspetto più profondo del cambiamento: «Oggi l’attività in proprio non è più percepita come un ideale o una vocazione, ma come una scelta complessa, spesso gravata da incertezze e vincoli che ne riducono l’attrattiva», spiega Taddei.

I dati mostrano infatti che, anche nei settori tradizionalmente orientati all’autonomia professionale – come quello giuridico o tecnico – una parte crescente di giovani preferisce un impiego stabile «da salariato» alle incertezze dell’attività in proprio. «Oggi i giovani mostrano un atteggiamento più pragmatico: valutano il lavoro in base ai vantaggi e agli svantaggi. È un cambiamento importante, che indica come il lavoro non abbia più il ruolo centrale che aveva qualche decennio fa».

Oneri amministrativi e salari

Tra le principali cause della carenza di personale nelle professioni liberali, secondo il sondaggio, ci sono gli oneri amministrativi cresciuti nel tempo, le prospettive di reddito inferiori rispetto al settore pubblico e la difficoltà di conciliare lavoro e vita privata. Molti giovani, inoltre, manifestano una bassa propensione al rischio e una percezione di responsabilità eccessiva legata alla gestione autonoma di un’attività. Ne risulta che il modello dell’indipendenza professionale appare oggi meno desiderabile. «Il che contribuisce a rendere più difficile il ricambio generazionale e la continuità delle attività nelle professioni liberali», spiega Taddei.

Tra i dati più eloquenti dello studio spicca il lungo periodo di vacanza dei posti di lavoro. «Oltre la metà dei posti vacanti nelle libere professioni rimane scoperta per oltre 6 mesi», rileva Taddei. Secondo gli studi precedenti, la durata media dei posti vacanti nell’economia svizzera era di 43 giorni. Non solo. «La maggioranza degli intervistati non prevede miglioramenti a breve termine, anzi in molti casi si attende un ulteriore aumento del fabbisogno».

Il gatto che si morde la coda

Come spesso accade in situazioni analoghe, le cause e le conseguenze finiscono per influenzarsi a vicenda. Meno personale qualificato vuole dire più ore di lavoro per chi rimane nello studio. Oltre la metà degli intervistati dichiara di aver lavorato più di quanto desiderato nell’ultimo anno, con una media reale di circa 50 ore settimanali rispetto a un ideale di 40. Al contempo, però, più ore di lavoro significa più malcontento che poi genera meno disponibilità ad assumersi responsabilità e, quindi, maggiore propensione a lavorare come dipendente salariato, magari, in un ente pubblico, dove la pressione lavorativa - teoricamente - dovrebbe essere meno elevata. Tutto ciò alimenta, come dicevamo in apertura, il grande problema della difficoltà della successione dell’attività: «La questione del ricambio generazionale è percepita come un ulteriore ostacolo», rileva Taddei. «Oltre la metà dei professionisti interpellati lo considera un problema importante».

Tre misure

Secondo l’associazione il passo da intraprendere è prima di tutto politico. Perché è la politica che può e deve cambiare qualcosa. In particolare, sono tre le misure che l’ASLP chiede che vengano implementate. La prima riguarda la riduzione del carico burocratico e amministrativo, in particolare nella sanità. «Un medico dedica in media un giorno alla settimana alle pratiche burocratiche. È un dato di fatto imposto dal sistema. Per questo motivo, è necessario migliorare le condizioni quadro attraverso un alleggerimento degli oneri amministrativi». La seconda misura riguarda le condizioni di lavoro e la remunerazione. «I professionisti rivendicano tariffe più elevate, quando queste, evidentemente, sono legate a dinamiche contrattuali su cui non hanno pieno controllo». La terza misura formulata all’indirizzo della politica tocca la formazione, che andrebbe rafforzata, soprattutto in alcune specialità. «Parliamo soprattutto di ingegneri e medici: la carenza in questi settori è nota da tempo, ma finora non sono state adottate misure per promuovere queste professioni. Non si tratta di obbligare qualcuno a scegliere un determinato percorso, ma di creare le condizioni favorevoli per farlo. Basti pensare al numero chiuso in medicina, che contribuisce a mantenere basso il numero di medici in Svizzera, in particolare di medici di famiglia». Infine, secondo l’associazione è fondamentale preparare i giovani all’attività indipendente: «Anche in questo caso occorre intervenire a livello di formazione, fornendo agli studenti gli strumenti necessari per affrontare con consapevolezza e senza timori la scelta di diventare professionisti indipendenti».

Che fare, dunque?

In Svizzera, oltre 90.000 piccole e medie imprese (PMI) non hanno ancora definito un piano di successione. È quanto emerge da uno studio realizzato da Dun & Bradstreet pubblicato negli scorsi giorni. «Le difficoltà che molte PMI riscontrano al momento del trasferimento della proprietà deve far riflettere», premette al CdT il Consigliere agli Stati e presidente dell’Unione Svizzera arti e mestieri (USAM), Fabio Regazzi, presente ieri a Berna alla presentazione dello studio commissionato dall’Associazione svizzera delle libere professioni (ASLP). «La successione di un’azienda è uno dei processi più difficili, e il dato delle 90 mila realtà aziendali che oggi riscontrano criticità preoccupa, in quanto il tessuto economico svizzero e il suo benessere si fondano proprio su queste realtà». Secondo lo studio, le imprese di dimensioni medie sono le più colpite: tra le aziende con 10-49 dipendenti, il 15,8% non ha ancora pianificato la successione, mentre nelle microimprese (1-9 dipendenti) la quota è del 15,1%. Le grandi aziende (50-249 dipendenti) risultano meno esposte (7,9%). Le forme giuridiche più interessate sono le imprese individuali (21,8%), seguite dalle società anonime (15,6%) e dalle Sarl (10%). Che cosa fare, dunque? «Di certo non votare l’iniziativa socialista sulle successioni. In generale – prosegue Regazzi – occorre migliorare le condizioni quadro, alleggerendo gli inutili carichi amministrativi-burocratici che nel tempo hanno reso meno attrattiva l’attività indipendente, allontanando di fatto i giovani dall’avventura imprenditoriale». Una valutazione che si lega direttamente a un dato emerso nel sondaggio ASLP, presentato ieri, secondo cui la propensione all’attività indipendente tra i giovani è diminuita: «Ho un po’ l’impressione che una parte delle giovani generazioni si siano sedute sugli allori, dando per scontato che il benessere sia garantito. In realtà non è così. Non lo è mai stato, e non lo sarà neppure in futuro. Abbiamo perso slancio, ma dobbiamo rendercene conto». Sulle cause che oggi spingono molti giovani a preferire il ruolo di «salariato», pesano soprattutto la maggiore stabilità, le migliori condizioni salariali e i vantaggi che il settore pubblico può offrire rispetto a quello privato. «Il settore privato spesso non è in grado di offrire le medesimi condizioni, creando di fatto una concorrenza impari che penalizza ulteriormente le libere professioni, costrette invece a confrontarsi con rigide logiche di mercato», commenta Regazzi. Per quanto riguarda le modalità di successione, il 41% delle imprese opta per una trasmissione familiare, il 40% per una vendita a un soggetto esterno e il 19% per una cessione interna ai collaboratori. I maggiori problemi di successione si concentrano nel settore della stampa e dell’editoria, dove attualmente il 23,2% delle attività sono confrontate con questa sfida. Seguono gli studi di architettura (18,5%), gli studi di consulenza fiscale e aziendale (18,4%) e, in generale, il mondo della sanità.