«La realtà virtuale dello smartphone è disastrosa nell’età evolutiva»

Medico, psicoterapeuta, docente. Ma anche scrittore, per bambini e non solo. Alberto Pellai è uno dei più noti e apprezzati studiosi italiani dell’età evolutiva, campo di ricerca nel quale lavora da decenni. Ieri sera, Pellai era a Lugano per partecipare al convegno «Crescere ed educare nell’epoca della “generazione ansiosa”», organizzato all’USI da Student Point. Il Corriere del Ticino lo ha intervistato.
Professor Pellai, comincerei con il chiederle perché oggi si parla sempre più di «generazione ansiosa», concetto al centro di un libro di Jonathan Haidt ma anche delle sue riflessioni in Allenare alla vita. I dieci principi per ridiventare genitori autorevoli (Mondadori, 2024).
«Il dato di partenza è che noi, in questo momento, abbiamo i peggiori indicatori di salute mentale che si siano visti in adolescenza negli ultimi decenni. Questa situazione di usura della salute mentale in età evolutiva è diventata costante e progressiva, ogni anno è andata cioè sempre peggio. Soprattutto a partire dal 2011-2012, ovvero quando tutto il mondo è transitato dall’uso del semplice telefono cellulare all’uso dello smartphone. Un passaggio non da poco».
In che senso?
«Nel senso che mentre prima, con il telefonino, potevamo soltanto fare chiamate o mandare messaggi, con in mano lo smartphone possiamo rimanere connessi in qualsiasi punto del mondo e della vita noi ci troviamo. Ecco: questa possibilità, che nella logica del tecno-entusiasmo sembrava un’amplificazione importante e molto valida delle nostre vite, si è rivelata in realtà disastrosa, in particolare per i soggetti in età evolutiva».
Per quale motivo?
«Perché i più giovani sono in quella fase di allenamento alla vita in cui devono imparare a stare nella vita reale e a reggere in modo adeguato le sfide della vita reale, sviluppando competenze di natura cognitiva, di natura emotiva, e di natura socio-relazionale che invece non vengono allenate in ugual modo dentro alla vita virtuale».
Perché succede questo?
«Ormai è dimostrato che la vita virtuale ha depotenziato in età evolutiva i funzionamenti cognitivi, le competenze emotive e, soprattutto, il bisogno di socialità, cioè di relazionalità. Esiste una correlazione tra quanto è accaduto all’adolescenza della Generazione Z negli ultimi 10 anni e la modalità con cui le vite virtuali hanno preso progressivamente sempre più spazio e posto nel mondo dei giovanissimi. E quello che tocchiamo con mano, in questo momento, è che questa transizione da immersione nella vita reale a immersione nella vita virtuale ha fatto pagare un prezzo significativo alla salute psicologica, ma anche fisica, di bambini e bambine, ragazzi e ragazze».
Tutto ciò è accaduto forse perché nessuno si è posto il problema di educare all’uso dello smartphone, quando lo smartphone si è imposto?
«Ma vede, noi possiamo anche educare a un buon uso dello smartphone. E tuttavia, il dato di fatto è che lo smartphone è un ambiente pieno zeppo di stimolazioni ed esperienze costruite con la logica di renderle additive nella vita di chi le frequenta. Il mondo dei social media e il mondo dei videogiochi, ad esempio, sono programmati e progettati affinché chi entra dentro quegli ambienti ci permanga il più a lungo possibile. Sono “luoghi” che propongono esperienze congegnate in modo tale da essere il più additive possibili e da costringerti il più possibile a stare all’interno di quella stessa esperienza.
Una sorta di trappola.
«Dentro lo smartphone troviamo un vero e proprio campo magnetico che attira i funzionamenti dopaminergici del cervello di tutti. Quelli dei minori, però, sono molto più vulnerabili a ciò che viene indotto da questa tipologia di esperienza e da questo permanere in tale ambiente. L’età evolutiva è il tempo in cui noi, fondamentalmente, diamo forma alla nostra mente, cabliamo le reti neuronali del nostro cervello».
Come dice Haidt, oggi si assiste al «ricablaggio dell’infanzia».
«Esattamente. Con in mano sempre uno smartphone, il lavoro di scultura del cervello e del funzionamento mentale che solitamente facevi nella vita reale, lo fai nel virtuale. Questo porta a risultati completamente diversi; risultati che oggi sono pagati in termini di salute mentale, perché noi abbiamo un’adolescenza più ansiosa, più depressa, più fragile, più ritirata socialmente».
Lo scenario che lei tratteggia è molto preoccupante. C’è una soluzione, un modo per uscire da questa trappola?
«Sì, Haidt nel suo libro dà ai genitori quattro indicazioni molto chiare, che corrispondono anche a quanto io stesso suggerisco da tempo nei miei studi: non autorizzare il possesso di uno smartphone per uso personale prima dei 14 anni; non autorizzare l’apertura di un profilo in un social media prima dei 16 anni; rendere la scuola completamente “smartphone free” fino al compimento della secondaria di secondo grado; rimettere bambini e bambine in spazi dove l’attività del gioco non è virtuale ma reale, corporea, all’aria aperta».
Quindi lei è d’accordo con la scelta, ad esempio, di vietare l’uso dello smartphone a scuola.
«Assolutamente sì. Questo non vuol dire negare l’utilizzo del digitale per una lezione; significa che se tu devi fare una lezione integrata con il digitale, metterai a disposizione degli studenti gli strumenti utili a vivere quell’esperienza senza però rimanere dentro l’ambiente che costantemente invia notifiche all’utilizzatore online; per cui, tu sei magari dentro un sito nel quale stai guardando un documentario che ti serve per la lezione e, nello stesso momento, la tua community di videogiochi o il tuo profilo social continuano a bombardarti di messaggi che ti dicono: “Guarda che sta accadendo altro, vatti ad informare”».
Un’eterna distrazione, un eterno rivolgimento altrove.
«Qualcosa che bisogna assolutamente fermare».