La Romania, a trent’anni da un nuovo inizio

Tra il 16 e il 25 dicembre 1989 il popolo rumeno scese nelle strade – prima a Timisoara, poi a Bucarest e in altre città – per ribellarsi alla dittatura di Nicolae Ceausescu. Quest’ultimo e la moglie Elena furono fucilati il giorno di Natale. Trent’anni dopo quella sanguinaria rivoluzione, Petre Roman, il primo premier della Romania democratica, fa il punto.
A trent’anni dalla rivoluzione rumena, la più sanguinaria tra quelle che hanno portato alla caduta dei regimi comunisti nel 1989, qual è il suo bilancio?
«Rispondo con una conclusione, che ritengo la più importante. Oggi la Romania, come Stato, è il più libero e prospero di sempre. Ciò è dovuto principalmente all’integrazione del nostro Paese nell’Unione europea. Si sono perse molte occasioni in questi trent’anni e ciò ha comportato effetti negativi. Abbiamo oltre tre milioni di concittadini che vivono e lavorano all’estero: un’immensa emorragia di popolazione attiva, ma oggi la Romania si trova in una situazione tra le migliori della sua storia».
Nel suo Paese la società civile e la politica puntano il dito contro «i padri» della rivoluzione, tra i quali, in prima fila, Ion Iliescu e lei. Anziché gratitudine siete stati accusati di crimini contro l’umanità. Come lo spiega?
«Ci sono due aspetti da tenere presenti, uno perfettamente comprensibile, l’altro che non può essere giustificato. Da una parte è in atto uno sforzo per fornire risposte a quanto accaduto durante la rivoluzione, nella quale sono morti oltre un migliaio di rumeni. C’è l’esigenza, in nome della giustizia, di chiarire i fatti nel rispetto delle vittime e dei loro famigliari. Il secondo aspetto – totalmente arbitrario – è che si chiama in causa la stessa rivoluzione. Con un atteggiamento manifestamente accusatorio si cerca di portare in giudizio alcuni uomini politici di allora, primo fra tutti il presidente Ion Iliescu. Io personalmente sono stato sollevato da ogni accusa. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio processo politico nel quale l’accusa di crimini contro l’umanità è la più assurda».
Nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 1989 lei si trovava sulle barricate con i rivoltosi. Quali sono state le tesi sostenute dall’accusa?
«Parliamo dei momenti più drammatici della rivoluzione. Quando si è sparato contro di noi, nell’attacco ordinato da Nicolae Ceausescu poco prima di mezzanotte, in piazza eravamo un’ottantina di persone. Dopo che gli uomini del regime – Esercito e Securitate – hanno iniziato a spararci, sono stati assassinati a tradimento 39 nostri concittadini. Nell’atto d’accusa a mio carico c’era scritto che, poco più di quindici ore dopo quei drammatici momenti , io avrei complottato per ammazzare centinaia di rumeni – morti poi in seguito – per impossessarmi del potere. Cosa può essere più assurdo e insensato? L’accusa nel frattempo è caduta, ma resta il fatto che si è voluto far valere la leva giuridica su una questione soltanto politica e questo non è accattabile. Ion Iliescu, da qualche anno, ha deciso di non dare più spiegazioni, ma credo abbia sbagliato. E questo perché per molti anni nella società rumena si è fatta largo l’idea che sia colpevole. Anche se tra me e Iliescu vi sono state notevoli differenze d’opinione, mi sembra ingiusto che egli sia considerato un capro espiatorio».
A che punto sono le procedure giudiziarie?
«I procuratori militari hanno fatto cadere le accuse a mio carico. Lo stesso Iliescu e Gelu Voican Voiculescu restano sotto accusa, mentre altre persone che hanno organizzato la rivolta nei giorni 22, 23 e 24 dicembre non vivono più. Sarebbe ancora in vita una sola persona che secondo i magistrati potrebbe avere avuto un ruolo nella morte di centinaia di rumeni. Il processo è alle battute iniziali, ma la giustizia ha pochi elementi a disposizione».
Si è parlato di un progetto orchestrato con la Russia e quindi di una rivoluzione organizzata a tavolino con voi che avete guidato il Fronte di Salvezza Nazionale.
«No, la tesi secondo cui la rivoluzione sarebbe stata influenzata, se non organizzata, da Mosca è stata abbandonata. Nessuno o quasi in Romania crede più a una simile teoria. Del resto non sono stati trovati elementi che potrebbero attestarlo. Non dimentichiamo che l’Occidente – stando anche a quanto affermato in quei giorni caldi dall’ex ministro degli esteri francese Roland Dumas – avrebbe trasmesso a Gorbaciov l’auspicio di un possibile intervento militare a Bucarest per fermare il bagno di sangue. Noi abbiamo rifiutato e anche Gorbaciov ha detto no».
Vi accusano di aver voluto chiudere i conti con il passato ceausista troppo in fretta. Elena e Nicolae Ceausescu prima di essere fucilati a Targoviste il 25 dicembre hanno subito un processo sommario.
«Il processo a Elena e Nicolae Ceausescu, dal profilo della giustizia convenzionale, è stato scorretto. Ma non si è svolto in circostanze normali, ha avuto luogo nel quadro della giustizia di quel preciso periodo storico. Il fatto che la coppia sia stata processata in quel modo, per la gravità dei crimini che aveva commesso, era stato ritenuto un fatto dovuto. Silviu Brucan propose che venissero giudicati rapidamente. In un primo momento Iliescu si era detto contrario, ma poi accettò. Uno sbaglio, d’altro canto, è stata la formulazione dell’atto d’accusa, che è stato elaborato in assenza di informazioni. Sarebbe stato meglio se lo si fosse scritto in modo più ragionevole. Una rivoluzione non permette però di mettere le cose in un certo ordine, proprio perché presuppone il rovesciamento del sistema, l’abbandono della legge esistente».
Veniamo al presente. In che rapporti è rimasto con Ion Iliescu?
«Siamo stati spesso in disaccordo fin dal periodo nel quale lui era presidente ed io primo ministro. Ci siamo trovati divisi, per esempio, sulla controversa questione della repressione dei minatori avvenuta nel giugno del 1990, che Iliescu ha tollerato o ha almeno accettato. Gli è stata comunque attribuita da più fonti una responsabilità nei fatti dato che all’epoca era lui il presidente. Non siamo comunque mai stati nemici, ma uomini ragionevoli che hanno cercato il confronto delle idee e delle opinioni, nonostante vedute differenti».
La Romania è un membro-UE da 12 anni. Eppure è un Paese che pur avendo una buona crescita economica (oltre il 4% annuo) fatica a trovare stabilità politica. Come lo spiega?
«Oltre all’instabilità dobbiamo ricordare le lotte intestine ai partiti e i toni aggressivi che hanno permeato il dibattito politico in questi decenni. Quello che la Romania non è riuscita a fare in questi trent’anni, se non raramente, è che i partiti e i politici trovassero un’intesa e obiettivi comuni per la crescita del Paese. Per l’economia, negli anni abbiamo varato riforme che sono state puntualmente abbandonate con il passaggio ai governi successivi. È prevalsa miopia politica.Al momento della rivoluzione, e lo posso dire come professore universitario, la Romania disponeva di risorse umane eccellenti (architetti, ingegneri, medici, docenti eccetera), non inferiori a quelle di altri Stati europei. I continui litigi hanno giocato contro».
Il PSD è stato spesso al centro di casi di corruzione, ciò ha influito sulla caduta del Governo di Viorica Dancila e sulla netta conferma di Klaus Iohannis alle presidenziali.
«Il PSD ha ammesso la corruzione tra i suoi politici e tra i funzionari statali di alto rango, ha promosso la partitocrazia. Gli elettori ne hanno tenuto conto. Anche Liviu Dragnea, il presidente del PSD dell’ultimo periodo (in carcere per abuso d’ufficio, ndr), nelle relazioni con l’Europa ha seguito una linea perdente: ha declinato l’invito a un dialogo costruttivo. D’altro canto, l’UE deve capire meglio cosa chiedere alla Romania. Attualmente il PSD si trova in una situazione molto difficile e potrebbe sprofondare ancora di più, come si è verificato in Francia e in Germania».
Il 22 dicembre come ricorderà i giorni della rivoluzione? E di cosa si occupa oggi?
«Continuo a raccontare ciò che è accaduto allora, il 21 dicembre, quando mi trovai sulle barricate con numerosi altri rumeni. La rivoluzione è finita in un bagno di sangue e ha svelato all’intera umanità ciò che è stato il regime di Ceausescu. Sarà un’altra occasione per ricordare cosa abbiamo vissuto, fino al momento per me più sorprendente: quando il 26 dicembre 1989 mi è stato proposto di diventare primo ministro. Oggi non svolgo più politica attiva pur essendo membro del PNL (Partito nazionale liberale), ma intervengo spesso in dibattiti pubblici in Cina, America latina ed Europa. Mi dispiace che in Romania nessuno dei partiti politici riesca ancora ad avere una visione unitaria sul futuro del Paese. È in atto una pericolosa frammentazione, io continuerò a battermi affinché le sfide del domani possano essere affrontate con più unità».

La ricostruzione
Dalle prime proteste alla fine di Ceausescu
L’anno 1989 ha mutato profondamente il quadro sociopolitico dell’Europa dell’Est e non solo. La Romania di Nicolae Ceausescu sembrava invece potesse sopravvivere a quei grossi cambiamenti, sensazione che lo stesso dittatore aveva alimentato anche tramite l’organizzazione del 14. Congresso del Partito comunista rumeno del 20-24 novembre 1989. A Iasi, un gruppo di ingegneri provenienti dalle principali industrie il 14 dicembre 1989 organizzò una manifestazione di protesta nel centro città. La Securitate (la polizia politica comunista, ndr) riuscì però a fermarla sul nascere. A Timisora, lo stato generale del malcontento, aggravato dalle difficoltà con le quali si confrontava quotidianamente la popolazione, provocò un’azione spontanea di protesta espressa con un’iniziativa di solidarietà al pastore della Chiesa calvinista Laszlo Tökés. Quest’ultimo fu obbligato a trasferirsi in una lontana parrocchia di provincia a Mineu. La popolazione rispose con una grossa manifestazione nel centro città. Su ordine di Ceausescu si scatenò un’ampia azione di repressione armata: ne furono vittima cento dimostranti. Ceausescu, nel frattempo, lunedì 18 dicembre, fu in visita di Stato in Iran. Al suo rientro, mercoledì 20, il dittatore constatò che le misure di repressione di Timisoara ebbero in realtà un effetto contrario. Tanto che il 20 dicembre 1989 la popolazione rivoltata proclamò Timisoara città libera. Infuriato, Ceausescu organizzò un grande meeting a Bucarest per condannare la «ribellione» dei cittadini di Timisoara (azioni di solidarietà con questa città ebbero contemporaneamente luogo in vari centri urbani tra cui Arad, Lugoj, Cluj e Brasov).
L’ultimo discorso del Conducator
Il raduno popolare di giovedì 21 dicembre si trasformò però in una manifestazione spontanea di protesta, che obbligò il dittatore – intervenuto un’ultima volta dal balcone del Comitato centrale – a rifugiarsi nel palazzo. I tentativi di reprimere i gruppi di dimostranti nel corso della notte successiva fallirono. La gente si raggruppò e durante la mattina del 22 dicembre si diresse di nuovo verso il palazzo del Comitato centrale, decisa ad allontanare il dittatore. Alle 12.06 i coniugi Ceausescu fuggirono dall’edificio a bordo di un elicottero militare che li lasciò in un campo a circa 60 chilometri da Bucarest (era scattato l’ordine di chiudere lo spazio aereo, ndr). Verso sera raggiunsero la città di Targoviste con mezzi di fortuna dove furono arrestati e incarcerati in una caserma dell’esercito. Lì si svolse il processo che condannò la coppia per i crimini commessi. Il 25 dicembre è la data della fucilazione di Nicolae e di Elena Ceausescu.
Adrian Niculescu: «Stravolta la realtà»
Lo storico rumeno Adrian Niculescu (professore della SNSPA di Bucarest) denuncia senza mezzi termini come a trent’anni dai fatti sia in atto «il tentativo di demonizzare e vilipendere la rivoluzione rumena». Ciò, insiste, è «uno stravolgimento dei fatti basato su anni di disinformazione e di calunnie proferite dall’allora Securitate, poi dagli ambienti nazionalcomunisti, dai nostalgici del regime e ora anche da rappresentanti dei partiti dell’opposizione» . In quest’ambito, continua Niculescu, spicca «la campagna d’odio messa in atto contro l’ex presidente Ion Iliescu, assurdamente inquisito per “crimini contro l’umanità” e accusato di “sovversione contro l’ordine legale pre-esistente” (cioè del regime comunista). È come voler fare il processo allo sbarco in Normandia – o 30 anni dopo, nel 1975 – alla resistenza, per aver rovesciato il regime di Mussolini». In Romania, aggiunge lo storico, i tre quarti della popolazione darebbero credito a questa vera e propria «campagna d’odio», come fosse una vendetta postuma di Ceausescu e della sua Securitate. In tal modo – conclude – «la rivoluzione diventa l’episodio più infangato della storia rumena quando in realtà è il più luminoso, perché ha portato alla libertà e alla democrazia».