Società

La schiavitù dello smartphone: cos’è e come combatterla

Il volume «la dieta digitale dei sette giorni» di Alessandro Trivilini ci aiuta a capire se siamo noi a usare il telefonino oppure è lui a usarci
Foto Gabriele Putzu
Paride Pelli
30.01.2019 20:16

La dieta digitale dei sette giorni è un libro, pubblicato da SEB Casa Editrice SA di Chiasso, che verrà presentato il prossimo 7 febbraio. Ma è anche e soprattutto un metodo «per capire se sei tu ad usare lo smartphone oppure è lui ad usare te». Ad affermarlo è l’autore, Alessandro Trivilini, che questa dieta l’ha ideata e realizzata applicando con successo i sistemi motivazionali interpersonali. Un approccio che l’ha portato a stilare un protocollo utile per evidenziare le motivazioni che caratterizzano il rapporto tra uomo e telefonino. La dieta digitale dei sette giorni è, di fatto, un trattamento per scoprire quanto una persona è dipendente dalle notifiche, dalla geolocalizzazione, dai social media, dalla posta elettronica e da tutte quelle applicazioni che ogni giorno scarichiamo sui nostri supporti digitali. Una guida pragmatica «che non vuole demonizzare lo smartphone, ma aiutarci ad usarlo meglio, con maggior consapevolezza», sostiene l’autore secondo il quale «non bisogna puntare il dito contro la tecnologia ma, siccome è stata costruita a nostra immagine e somiglianza, dobbiamo fare un esercizio su noi stessi per gestirla al meglio».

Come è nata l’idea di una «dieta digitale»?
«Nasce da un’esperienza personale durante un soggiorno per motivi di lavoro a Mosca: sono rimasto senza Rete, privo di connessione, per alcune ore, confrontato con automatismi gestuali acquisiti nel tempo in relazione al mio smartphone. Guardavo nervosamente se mi arrivavano le notifiche e mi sono accorto che questa gestualità era ricorrente, insistente, pur non potendo, appunto, utilizzare il telefonino. Lo smartphone era in stretta relazione con me. Ho pensato subito a qualcosa che potesse aiutarmi a capire questa strana situazione. Mi sono chiesto: “Come posso sfruttare le mie esperienze da ricercatore per capire le motivazioni che portano una persona a entrare in una relazione così stretta con un oggetto?”. Il pensiero è andato immediatamente al mio dottorato di ricerca al Politecnico, dove ho studiato i sistemi motivazionali interpersonali che misurano la relazione tra due entità dello stesso genere. Come è noto, le applicazioni nello smartphone sono costruite in modo pervasivo, sfruttando gli elementi cognitivi affinché siano semplici e intuitive, senza la necessità di leggere un manuale d’uso. Nella relazione uomo-uomo di cui accennavo poc’anzi, ho così sostituito un essere umano con lo smartphone, e mi sono accorto che potevo identificare un percorso in cui le motivazioni, a livello di “attaccamento” e “accudimento”, funzionavano molto bene. Questa scoperta mi ha impressionato ed è dunque nata l’idea della dieta».

Senza un’alfabetizzazione digitale non dobbiamo stupirci se un giorno sarà lo smartphone a scegliere per noi il gusto del gelato più affine alle nostre emozioni

Qual è l’obiettivo finale di questa dieta?
«Innanzitutto, non si vuole né demonizzare né limitare l’uso dello smartphone. Semmai la dieta vuole fornire attraverso un “bugiardino” – uso questo termine perché il mio approccio arriva proprio dal campo clinico – un percorso che porti un utilizzatore a misurare le sue motivazioni e capirle, in rapporto a un oggetto che ha sempre con sé. Ho consultato alcuni colleghi del Politecnico di Milano, specialisti dei sistemi motivazionali e pure loro si sono detti entusiasti dell’approccio. Sino a oggi, in effetti, non esisteva un metodo per misurare la dipendenza da smartphone sebbene in certi Paesi sia considerata al pari di droga e alcol, e quindi da combattere. Il mio libro vuole essere un contributo per unire due mondi sino a oggi completamente isolati. Anche perché, avanti di questo passo e senza una buona alfabetizzazione digitale, non dobbiamo stupirci se un giorno sarà il nostro smartphone a scegliere per noi il gusto del gelato più affine alle nostre emozioni e più consono allo stato di salute del momento ».

Quando si è dipendenti dallo smartphone?
«Quando si entra in quella dimensione di “attaccamento” che porta fino a una sensazione di abbandono: non arriva la notifica di WhatsApp attesa con trepidazione, non si ha accesso alla posta elettronica, oppure ci si ritrova disconnessi. Lì può maturare un sentimento di isolamento, distacco, ansia. Questo porta anche alla frenesia, a un comportamento quasi schizofrenico, di gestualità incontrollata. Poi il telefonino ricomincia a lampeggiare e ci si sente sollevati, subentra dunque l’“accudimento”, un appagamento che in realtà è solo una percezione emotiva. Ecco, la dieta ci fa capire meglio il meccanismo: può sembrare forse banale, ma se prendiamo consapevolezza di questo percorso potremo utilizzare meglio il nostro smartphone. Qualcuno potrà obiettare che il sistema della dipendenza è ben più complesso di quello che descrivo nel mio breve libro, ma posso garantire che nel rapporto uomo-smartphone il flusso delle informazioni è continuo e la misura della relazione è chiara: ciò dimostra che si tratta di un approccio scientificamente efficace».

Spegnere lo smartphone è sbagliato, spegnerlo nel momento giusto è opportuno, ma richiede un grosso sforzo da parte nostra

La sua dieta parte dalla disattivazione, il primo giorno, di tutte le notifiche per arrivare, l’ultimo giorno ad una limitazione della lettura delle email : con quale nesso logico?
«Dopo aver individuato l’approccio, andavano inseriti i vari elementi in sequenza corretta. Ho allora focalizzato l’attenzione su quelli utilizzati, da un punto di vista tecnologico (hardware e software), da chi li costruisce per incentivare e stimolare in continuazione la nostra relazione con lo smartphone: l’obiettivo delle applicazioni è infatti quello di tenerci il più possibile attaccati ai dispositivi. Sono quindi partito dalle notifiche arrivando appunto alle email. Passando per la telecamera e la geolocalizzazione, senza tralasciare la custodia – sembra paradossale – che oggi è un business quasi più redditizio degli smartphone stessi. Pensateci bene: la cover personalizzata con, ad esempio, stampata la foto del figlio è un modo per accudire il proprio bambino, lo smartphone appunto. Un capitolo a parte lo merita poi la carica della batteria, che pure altera gli stati emotivi. Ordinando questi elementi sull’arco di sette giorni viene fuori la dieta digitale. L’idea generale dalla quale sono partito è che spegnere lo smartphone è sbagliato, spegnerlo nel momento giusto è opportuno, ma richiede un grosso sforzo da parte nostra. Dobbiamo riconoscere noi stessi in rapporto a qualcosa o qualcuno – penso all’assistente intelligente Siri – che è sempre con noi e che ci segue anche quando dormiamo, lì sul comodino. Utilizzare il dispositivo in piena consapevolezza migliorerà la nostra vita: così lo smartphone non sarà più un problema o un’ossessione».

Ma lei la dieta l’ha fatta?
«Certamente. Ho seguito i sette passi e ho imparato, ad esempio, a eliminare i gruppi di WhatsApp che non mi interessano e a rispondere picche a chi mi chiede di farne parte. Quando in un gruppo arrivano sollecitazioni continue che non ci interessano ma che disturbano la nostra concentrazione perché illuminano il display, è meglio uscirne, senza paura di dirlo. La dieta mi ha permesso di trovare un equilibrio in funzione a quello che per me è davvero necessario: nel mio caso, per esempio, il caricabatteria è fondamentale perché io il telefonino lo utilizzo soprattutto per chiamate professionali. Riguardo alla posta elettronica, invece, ho cercato di sensibilizzare i miei contatti sul fatto che non sempre riesco a rispondere istantaneamente a una sollecitazione. Credetemi: funziona».

LA NOMOFOBIA E LA I-GOBBA

Foto di Chiara Zocchetti
Foto di Chiara Zocchetti

La dipendenza da smartphone ha un nome, adattato dall’inglese, per descriverla: nomofobia, composto da nomo – forma accorciata dell’espressione no-mobile (phone) – e dal suffisso fobia, ovvero paura, terrore. La Treccani lo indica tra i neologismi già dal 2008, ma è entrato nel dizionario Zingarelli dal 2015. Una ricerca britannica ha dimostrato che oltre la metà dei possessori di smartphone soffre d’ansia se resta a corto di batteria, di credito – per chi ancora si affida alla pre-pagata, più frequentemente ragazzini o anziani – o senza copertura di Rete, tanto da ammalarsi di quella che gli studiosi definiscono, appunto, nomofobia. I sintomi somigliano a quelli dei disturbi di tipo ossessivo-compulsivo: ansia e manie di controllo dello stato del telefono. I livelli di stress generati mediamente dalla nomofobia sono paragonabili a quelli indotti dalla «tremarella del giorno delle nozze» o a quelli che si provano quando si va dal dentista. Colpisce per lo più i giovani tra i 18 e i 25 anni con bassa autostima e problemi relazionali che possono arrivare a sperimentare veri e propri attacchi di panico con vertigini, tremore appunto, mancanza di respiro e tachicardia. Non solo: i sintomi più gravi arrivano fino all’isteria e alle allucinazioni uditive: si avverte lo squillo del cellulare sebbene questo non abbia emesso alcun suono o sia stato dimenticato a casa. E il percorso di guarigione dalla nomofobia – assicurano i terapeuti – è lungo e impegnativo: qualcuno non ne esce mai.
Alla sempre più lunga lista di effetti collaterali associati agli smartphone si è aggiunto da tempo quello della cattiva postura, anche se su questo aspetto i medici sono più prudenti, invitando alla cautela e soprattutto a distinguere una cattiva postura da una vera e propria malattia. È comunque certo che trascorrere ore e ore chini sul display non aiuta a scongiurare quellache alcuni già definiscono la iGobba. Negli ultimi tempi, i casi di questa «schiena a zainetto» sembrano essere in preoccupante aumento e alcuni siti specializzati nell’ambito della tecnologia si sono chinati – è proprio il caso di dirlo – sul problema, interrogando diversi specialisti. Emerge che nei giovanissimi i casi di gobbe precoci sono sempre più frequenti, dovute presumibilmente alla posizione assunta per controllare lo smartphone e i dispositivi elettronici in generale. Gobbe e mal di schiena si starebbero quindi diffondendo a ritmi allarmanti sin dalla pre-adolescenza, con tutto quello che ne consegue.