La sorte allucinante delle ragazzi madri dei secoli scorsi

Crescere un figlio al di fuori di una relazione stabile è un problema anche oggi, ma in passato era peggio. Come abbiamo visto nei servizi dedicati a Casa Santa Elisabetta a Lugano, la situazione delle donne che restavano incinte e non erano sposate poteva assumere i contorni dell’incubo. Ma torniamo indietro di qualche secolo. Come minimo, spiega Isabella Spinedi in un saggio sulle relazioni illecite pubblicato nel giugno del 2002 su Archivio Storico Ticinese (131), la gravidanza illegittima era un dramma. In teoria le ragazze in stato interessante erano tenute per legge ad informare le autorità laiche e religiose del loro «incidente». Erano però le istanze laiche le vere «garanti dei costumi» delle fanciulle, perché il clero dei secoli XVI e XVII era spesso concubinario. Nel Cinquecento e nel Seicento non era affatto rara la figura del «prete seduttore» che viveva «more uxorio» (ovvero come marito e moglie) con una serva o una vedova senza che il popolo ne fosse particolarmente sconvolto. È nota la vicenda del prete Cornelio Bosia di Mendrisio che nel 1570 aveva avuto un figlio da una donna sposata, Caterina di Muggio, e si era recato dal legittimo marito dicendogli che quel bambino se lo voleva tenere lui.
Le visite alle nubili
Tuttavia gli stessi preti che sovente non brillavano per integrità dei costumi godevano di una efficacissima rete di informatrici su quelli delle ragazze da marito o delle vedove costituita dalle levatrici, anche dette «mammane» o «prevardatrici». Spettava a loro l’incarico «sociale» di vigilare sulle situazioni irregolari. A Mendrisio lo statuto affidava il compito di «visitare in certi tempi le donne nubili per vedere se sono gravide» alle levatrici e ai consoli (paragonabili ai sindaci di oggi). In un articolo di Virgilio Gilardoni apparso su Archivio Storico Ticinese (80) nel 1979 non si esita a parlare di «un sistema di delazioni, controlli, indagini palesi o discrete sulla vita privata dei contadini a caccia di creature spurie». Dove per «creature spurie» si devono intendere i figli di relazioni extra coniugali, poi definiti «fioli bastardi», «truvadin», «venturin» o «fiöö da l’ospedaa».
Ma torniamo alle nostre «ragazze madri» dei secoli passati ed ai loro tormenti. Se la gravidanza illecita veniva nascosta e il corpo del neonato non veniva trovato, scattava in automatico la presunzione di infanticidio. E la madre finiva male. Come nel caso della giovanissima serva di casa, Susanna Piazza di Salorino, una ragazzina di tredici anni che venne decapitata nell’ottobre del 1637 dopo la scoperta di una «creatura» da lei partorita e trovata sotto «un puoco di erba smossa». Dagli atti processuali emerge che venne ingravidata dal figlio del padrone con cui dormiva da cinque anni. Le era stato imposto il voto di castità per evitare sorprese, ma il compagno di letto gliel’aveva fatto bellamente infrangere. Il suo caso è stato ricostruito da Fabrizio Mena in un servizio scritto per Archivio Storico Ticinese (125) nel giugno del 1999.
La ruota dei conventi
Quando invece la gravidanza era pubblica, sfociava inevitabilmente nello scandalo. Nei baliaggi non c’erano istituti della carità, perciò alle donne restavano due vie: abbandonare la prole negli ospedali lombardi oppure scappare dal baliaggio per partorire altrove. C’era anche la nota opzione dell’abbandono del figlio appena nato alla ruota dei conventi, pratica assai diffusa pure da noi. Se il destino dei «fiöö da nisun» dipendeva dalle famiglie che se li prendevano, quello delle loro madri non era meno turbolento. Le più fortunate venivano sposate dal responsabile della loro gravidanza per riparare al «fattaccio». Quelle che avevano avuto relazioni oppure che erano state violentate da uomini sposati o di chiesa sceglievano l’esilio volontario, altrimenti rischiavano di essere additate come pubbliche meretrici (titolo che una donna si vedeva appioppare se aveva avuto una «copula carnale» con più di due uomini). Se andava bene potevano al massimo entrare nel particolare «mercato matrimoniale» di un gruppo di celibi (immaginiamo poco avvenenti) disposti a sposare donne dalla reputazione compromessa. Ma c’è da scommettere che lo facessero più per la dote che potevano ricavarne che per pietà, attrazione fisica o, men che meno, per amore.