La Svizzera negli occhi dei suoi migliori giornalisti

Immaginate un esercito di reporter sguinzagliato sul territorio nazionale per raccontare eventi di ogni tipo che riguardano il nostro Paese. I premi annuali al giornalismo svizzero (lo Swiss Press Award organizzato dalla fondazione Reinhardt von Graffenried) non sono solo una vetrina dei più pregiati prodotti mediatici ma anche un osservatorio sulle infinite sfumature della realtà elvetica.
Decine di giornalisti di tutte le testate nazionali sottopongono ogni anno i loro lavori alle selezioni dei servizi da premiare. Se abbiamo contato correttamente i nominativi, per l’edizione 2021 i candidati al riconoscimento fotografico sono stati 177; 116 quelli per i testi scritti; 59 per l’online; 62 per i prodotti audio; 46 per i video e 68 nella categoria Local. Per un totale di oltre 530 proposte giornalistiche lette, visionate, ascoltate e analizzate da sei giurie settoriali composte in totale da 33 professionisti del mondo dell’informazione provenienti dalle varie regioni linguistiche.

Un campionario enorme
Capirete, quindi, che il campionario di notizie, reportages, inchieste e storie raccolte per organizzare un’edizione degli Swiss Press Award, costituisca molto di più di una semplice rassegna di servizi per valutare lo stato di salute del giornalismo, ma un serbatoio di conoscenze puntuali e a volte sorprendenti sul territorio che va da Pedrinate (TI) a Schwarzer Stein (SH), dal Bois de Fargout (GE) al Monte Cavallaccio (GR), volendo citare i punti (cardinali) estremi del nostro Paese. Approfondimenti, scatti, intuizioni narrative che raccontano molto di noi e alla fine (in parte) vanno a confluire nell’annuale, imperdibile, libro dello Swiss Press Award.
Lo scorso 28 aprile, abbiamo avuto la fortuna di assistere da dietro le quinte all’ultima cerimonia di premiazione, svoltasi in clima COVID – tra distanze sociali e misure di sicurezza che hanno limitato la parte più festosa dell’evento, al terzo piano interrato del centro stampa di Palazzo federale a Berna. E ci siamo lasciati stupire dall’immagine del nostro Paese emersa dai servizi dei candidati alle premiazioni finali. Quella che segue non è un’analisi esaustiva delle tematiche presentate, ma una sindacabile selezione di sensazioni svizzere del 2020. Men che meno è una personale classifica dei lavori visti. Qui ci limiteremo ad illustrare alcune vicende o alcuni dettagli colti fra i servizi che, per qualche ragione, ci hanno colpito.
La morte e la pandemia
Con il cataclisma che ha generato, si parla assai di pandemia, ma è incredibile vedere in quanti modi si sia tradotta in Svizzera la crisi del coronavirus. Un plauso va ai colleghi delle testate ticinesi che hanno mostrato per immagini le cure intense alla Carità (Pablo Gianinazzi di Ti-press) o le hanno raccontate in tv (Leila Galfetti, Gaetano Agueci, Andrea Levorato e Philippe Blanc per Falò, vedi foto sotto); così come a Barbara Camplani di Rete due (sui volontari che hanno aiutato le persone che non potevano muoversi durante le chiusure) e Alice Pedrazzini con Elena Boromeo per Rete uno della radio RSI sul dramma nella casa anziani di Sementina. Ma quelli erano lavori che già conoscevamo. Non ci era invece capitato di vedere le foto sconvolgenti dei morti di COVID sui lettini di metallo avvolti nelle lenzuola in uno stanzone nei piani bassi dell’ospedale di Ginevra, per gli scatti di Christian Lutz ne la Tribune de Genève. O le bare posizionate all’imbocco di tre forni crematori nella stessa città in quelli di Siggi Bucher per SonntagsBlick.

Commuovela foto di Fabian Fiechter (nzz.ch) del «sì» scandito a fatica da un malato a letto nell’ospedale universitario di Basilea, per prendere in sposa la sua partner davanti all’ufficiale di stato civile, dopo 84 giorni di ricovero. E incantano le immagini che hanno valso a Sarah Carp il titolo di fotografa dell’anno. La Carp, mamma single, ha immortalato per Le Matin Dimanche la vita spensierata delle sue due figlie piccole costrette in appartamento con lei dallo stato d’emergenza mentre giocano, fanno il bagnetto con la schiuma in faccia, spuntano coi piedini dalla poltrona: fuori è pandemia, dentro il paese dei balocchi.
Il mondo in casa

Una macroscopica percezione emersa dall’edizione 2021 dello Swiss Press Award è che i grandi temi del mondo li abbiamo anche in casa. Detto della questione pandemica che, per definizione, riguarda tutti e ovunque nel mondo, non bisogna andare in America per raccontare l’epopea sessista del #Meetoo, «basta» avere tre giornalisti cocciuti di Le Temps (Célia Héron, Sylvia Revello e Boris Busslinger, sopra nella foto Alessandro della Valle, Swiss Press Photo, Keystone) che mettono le mani nelle ortiche per rompere «la regola del silenzio» sulle presunte molestie e sugli abusi di potere alla SSR. Vero che la vicenda si è nel frattempo un po’ ridimensionata, ma resta il fatto che la stampa romanda ha provato davvero a fare «il cane da guardia del potere» riguardo una realtà di cui si è parlato anche per la RSI, senza però suscitare analoghe reazioni giornalistiche. Ed è istruttivo notare che c’è ancora almeno un cronista nel nostro Paese, nel caso specifico Christoph Lenz, che su Das Magazin osa puntare il dito contro un colosso come il gruppo chimico Lonza (che recentemente ha annunciato il raddoppio della produzione di vaccini contro il coronavirus) per raccontare i suoi lati oscuri. Proprio da una sua fabbrica di vitamine a Visp, documenta Lenz, fuoriusciva protossido di azoto, nocivo per il clima. La battaglia svizzera per l’ambiente potrebbe anche partire dalla moria di pesci nel Blausee (canton Berna), uno scandalo svelato sulla Berner Zeitung da Julian Witschi, Catherine Boss e Marius Aschwanden, che sospettano ci sia un legame con il grande cantiere del traforo del Lötschberg, situato a qualche chilometro dallo specchio d’acqua.
Il mondo ci entra in casa anche quando parla di notizie molto lontane da noi. Come il crollo delle forniture tessili dal Bangladesh, un tema valso il primo premio nella categoria online a Valentin Felder, Sylke Gruhnwald, Dil Alfrose Jahan, Benedict Wermter e Christian Zeier di Refleckt.ch. Il fenomeno ha toccato anche il gruppo C&A appartenente a una holding basata a Zugo che ha annullato ordinazioni per un valore di 166 milioni di dollari. In questo brillante esempio di giornalismo online che si avvale anche di una narrazione semplificata a fumetti e di una versione abbreviata per chi ha poco tempo per leggere, si capisce come il nostro comportamento di consumatori quotidiani possa avere conseguenze dirette sulla sopravvivenza di migliaia di sarti e sarte in Bangladesh.
I dilemmi etici
Ma entrare nelle pieghe della Svizzera vuol dire anche entrare nella sua testa, dando voce agli interrogativi scomodi che possono affiorare. Andrea Arezina, Marie José Kolly, Thomas Preusse e Anna Wiederkehr di Republik.ch ad esempio, rilanciano un tema etico classico per la cultura contemporanea: qual è il termine massimo oggettivamente definibile per un aborto? Tema spinoso tra la protezione della vita non ancora nata e il diritto della donna all’autodeterminazione, raccontato non solo con la voce degli esperti, ma secondo tre filtri qualificati: il punto di vista del nascituro, quello della donna e i due punti di vista messi insieme. L’argomento più inquietante presentato è quello della pedofilia. Sabrina Bundi per RTR Cuntrasts ha provato a tratteggiarne i contorni nel canton Grigioni, proponendo di considerare che i pedofili non sono tutti uguali e perciò non vanno tutti e indistintamente stigmatizzati: c’è per esempio chi fa outing e sostiene di restare nel mondo delle fantasie «come sfogo per non diventare davvero un aggressore di bambini».
Poi ci sono le «storie», tormentone e caposaldo del buon giornalismo. Alcune sono davvero singolari. C’è un video di Simon Gabioud (Le Temps) che riesuma la vicenda dello scrittore afroamericano James Baldwin che nell’inverno del 1951 era approdato nel villaggio di Loèche (VS) per scrivere un libro in assoluta tranquillità. Scoprendo un mondo di pregiudizi, letteralmente in bianco e nero, sul colore della sua pelle. Avrebbe in un certo senso essere svolto in Ticino, invece, il reportage di Antoine Menusier (Bon pour la tête) sul modo in i confederati guardano i francesi e viceversa, di qua e di là del confine, a margine della decisione del Municipio giurassiano di Porrentruy, la scorsa estate, di proibire l’accesso alla piscina comunale a chi non risiede in Svizzera a causa di comportamenti incivili e di un’impennata di insicurezza.
La faccia sconosciuta dei vip
Lo Swiss Press Award 21 permette anche di raccontare i vip così come non li abbiamo mai visti. Divertente (e intrigante) ad esempio l’idea di Simon Meyer, Katharina Bracher, This Wachter e Luki Fretz che nei podcast della NZZ am Sonntag hanno provato a rispondere a una domanda semplicissima: che fine ha fatto Ursula Koch? La Koch, come forse ricorderete, si era dimessa con effetto immediato il 15 aprile del 2000 dalla carica di presidente del PS e dal mandato di consigliera nazionale di Zurigo. Da allora è scomparsa per sempre, al punto che ci si chiede se sia ancora viva. I giornalisti ripercorrono la sua prestigiosa e appassionata carriera, raccolgono voci sul suo stato di salute, tentano di contattarla tramite i parenti e il risultato resta in sospeso fino alla fine. Chiudiamo il giro delle star e delle curiosità con una foto che non dimenticheremo mai: quella del consigliere federale Guy Parmelin immortalato da Kurt Reichenbach su Schweizer Illustrierte. Il fotografo lo ritrae in stivaloni verdi e grembiule da lavoretti in garage mentre sembra allestire una sorta di albero di Natale in un ambiente del tutto casalingo con lo stemma della Confederazione sullo sfondo. Se non sai di chi si tratta, potresti scambiarlo per un individuo qualunque. Forse il maggior inno giornalistico possibile alla vicinanza alla gente comune, alla «qualsiasità» – diremmo - dei nostri rappresentanti supremi.


Fredy Gsteiger: "Non solo COVID nei media"
Fredy Gsteiger (foto sotto), lei è il presidente della giuria Swiss Press text. Come valuta lo stato di salute del giornalismo svizzero a giudicare dai lavori presentati allo Swiss Press Award quest’anno?

«Il livello dei lavori che abbiamo esaminato era alto e non è un fatto evidente, visti i tagli dei budget nelle redazioni. La nostra impressione come giuria è che in Svizzera ci siano ancora degli ottimi servizi giornalistici d’élite, mentre forse si è abbassata la qualità del giornalismo, diciamo così: medio».
Non c’è stato solo il tema del coronavirus...
«No, esatto. Tutti ne hanno scritto, ma la scelta dei soggetti è stata vasta. Ho l’impressione che le redazioni facciano uno sforzo per proteggere l’eccellenza, trascurando un po’ gli affari correnti. La maggior parte dei servizi presentati non riguardava la pandemia, come attesta anche la vittoria dell’inchiesta di Le Temps sugli abusi alla SSR».
Come spiega la ricerca di altri temi?
«Col fatto che se tutti cacciano la stessa preda, tutti avranno lo stesso bottino, se posso dirlo così. Se si esplorano altri cammini si trovano argomenti originali che non sono ripetitivi e non assomigliano ai lavori degli altri. Certo, ci sono stati degli ottimi spunti sul coronavirus, ma ovviamente su questo tema tutte le redazioni hanno presentato risultati analoghi».
In che modo la pandemia ha pesato sul giornalismo di quest’ultimo anno?
«Ha pesato soprattutto sul piano tematico. Bisogna dire che all’inizio c’era relativamente poca gente nelle redazioni che conoscesse questo genere di problema, pochi esperti. In Svizzera molte testate non hanno una redazione scientifica, solo le più grandi. Tutte le altre hanno dovuto recuperare gli elementi di base per capire e spiegare la situazione. A lungo termine, però, il peso della pandemia si è fatto sentire di più a livello organizzativo. Ci si è chiesti come si potesse avere a lungo termine delle produzioni, degli articoli e dei reportage di prossimità quando buona parte del lavoro si faceva via Zoom o via Skype».
Un recente libro di Gilles Labarthe, «Mener l’enquête», sostiene che il genere giornalistico dell’inchiesta in Svizzera è in crisi.
«Dico solo che agli Swiss Press Award abbiamo premiato delle inchieste, penso ai tre finalisti della categoria Text, per esempio. Testate come Le Temps e il Tages Anzeiger hanno forse addirittura rafforzato il desk delle inchieste con ottimi risultati. Penso che sia del denaro molto bene investito. Stiamo parlando di un gruppo di giornalisti che si è distaccato per giorni o settimane per scoprire cose che non erano conosciute».
Sì, ma quali testate possono permetterselo, economicamente parlando, in un periodo già così difficile per la sopravvivenza dei media?
«È difficile. Ma la risposta è semplice: bisogna fissare delle priorità. Se si continua a voler fare tutto con dei mezzi ridotti non ci sarà più giornalismo d’eccellenza. Bisogna orientare i propri mezzi limitati verso priorità che permettano di raggiungere degli exploit importanti. Penso che queste scelte portino frutti anche a livello di apprezzamento del pubblico. Cento articoli di giornale ‘normali’ e ‘corretti non hanno affatto lo stesso effetto di due o tre grandi inchieste e ricerche importanti. Naturalmente questo è molto più difficile per i media piccoli che sentono una sorta di obbligo morale nel coprire l’informazione di base. Ma il rischio è di investire molto denaro per ottenere scarsi risultati».
Parliamo dei giornali di carta: si va verso quotidiani che in futuro conterranno solo approfondimenti?
«Non solo, ma si tratterà sicuramente di un elemento forte. È chiaro che non tutti i giornali potranno sopravvivere con la stessa ricetta. Ognuno dovrà posizionarsi rispetto ai concorrenti. Così, se un media fa un grande sforzo in una direzione, gli altri dovrebbero essere sufficientemente intelligenti di non fare la stessa cosa. Si dovranno trovare sempre più delle formule miste tra notizie, approfondimenti, analisi, commenti e opinioni, per esempio. Per alcuni il piatto forte sarà la ricerca, per altri il reportage o i testi piuttosto letterari... La scelta è vasta».