La vera lotta, il dopo Khamenei

Continuità e stabilità. La Guida suprema, Ali Khamenei, rassicura. Lo fa con un messaggio alla nazione il giorno dopo la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi, avvenuta domenica nello schianto dell’elicottero su cui viaggiava nel nord ovest del Paese: «La nazione non ha bisogno di essere in ansia poiché l’amministrazione del Paese non sarà perturbata».
Una dichiarazione che evidenzia il ruolo centrale dell’ayatollah nel sistema politico iraniano, spiega Giuseppe Acconcia, docente di geopolitica del Medio Oriente all’Università degli Studi di Milano. «L’assetto istituzionale iraniano attribuisce un potere considerevole alla Guida suprema, per cui anche se viene a mancare il presidente della Repubblica, la continuità è garantita attraverso l’ayatollah stesso».
Parallelamente, la Costituzione iraniana prevede che il vicepresidente assuma le funzioni di presidente ad interim fino all’elezione di un nuovo presidente, che deve avvenire entro cinquanta giorni dalla vacanza della carica.
Retorica e divisioni
Continuità e stabilità, dunque. Una retorica portata avanti dall’élite conservatrice iraniana nonostante le profonde divisioni che da anni lacerano il Paese: «Dietro le dichiarazioni rassicuranti, in realtà, si nasconde un regime molto diviso e polarizzato. Sia al suo interno, tra le differenti anime conservatrici, sia nella società civile, tra chi sostiene il regime e chi si oppone nella maniera più radicale possibile». Una divisione aggravata dalla pesante crisi economica che attraversa il Paese dopo il ritiro, nel 2018, degli Stati Uniti dallo storico accordo sul nucleare siglato tre anni prima durante l’amministrazione Obama. Sotto il peso di un’inflazione che a febbraio ha superato il 40% su base annua, il malcontento della popolazione ha raggiunto livelli massimi. «Parliamo di un’economia segnata dalle sanzioni internazionali aggravate dalla decisione dell’ex presidente Trump di imporre restrizioni anche ai Paesi terzi che fanno affari con l’Iran». Una situazione che sposta la bilancia economica iraniana verso i Paesi come la Russia, la Cina e l’India, dove gli investimenti europei sono sempre più assenti, precisa l’esperto.
Le proteste di piazza
Alle difficoltà economiche si aggiungono anche le intense lotte sociali che da anni vengono combattute in Iran per le libertà e i diritti civili. Lotte che il regime ha duramente represso, in particolare sotto la presidenza di Raisi. Dopo le proteste di piazza iniziate a seguito della morte di Mahasa Amini, la giovane donna di 22 anni morta il 16 settembre del 2022 a Teheran per avere indossato non correttamente il velo islamico, Raisi ha inasprito le misure repressive contro gli attivisti e i manifestanti: «Questo malcontento riguarda non solo i giovani costretti a lasciare il Paese per realizzare i propri ideali, ma anche i liberi professionisti e i lavoratori che subiscono il peso di un’economia fallimentare».
Eppure, nonostante il profondo malcontento che divide il Paese, il destino delle prossime elezioni presidenziali, secondo Acconcia, è segnato: «Il sistema politico iraniano è chiuso. Il Consiglio dei Guardiani decide quali sono i candidati accettabili per il voto e quali no. Per cui, inevitabilmente, si giunge a una sistematica cancellazione di tutti i candidati scomodi e orientati al cambiamento».
Secondo l’esperto, il vero appuntamento politico determinante per il futuro Paese è rappresentato dalla sostituzione della Guida suprema: «Il vero interrogativo che si apre dopo la morte del presidente è chi prenderà il posto della Guida suprema. Khamenei oggi ha 85 anni, ed Ebrahim Raisi era indicato come il suo potenziale sostituto». Eliminata la figura di Raisi, ora si apre la strada alla sostituzione di Khamenei in maniera inedita. «È questa la vera battaglia che si sta giocando sotto traccia in questi anni». Lo spazio per il dissenso è minimo, precisa l’esperto: «Il movimento "Donna, vita, libertà", nato dopo la morte di Amini, è attivo, ma al momento non ha una rappresentanza politica; per cui tutto il confronto avviene nelle frange più conservatrici del Paese. Anche le figure più moderate sono state isolate dalle Guardie della rivoluzione, i pasdaran, che guadagnano giorno dopo giorno sempre più forza».


Alleati e sostegno militare
Infine, le rassicurazioni di Khamenei sono anche un preciso messaggio di sostegno alla politica militare degli alleati. «La morte del ministro degli Esteri Hossein Amir Abdollahian, deceduto nello schianto con il presidente Raisi, non modifica il sostegno strategico della Repubblica islamica dell’Iran ai suoi alleati nella regione, tra cui il presidente siriano Bashar al-Assad, gli Hezbollah libanesi, gli Houthi in Yemen e le milizie sciite in Iraq». Per la costituzione di questa rete di alleanze strategiche, il ruolo del ministro degli Esteri è stato fondamentale, precisa l’esperto. Al suo posto è subentrato, ad interim, Ali Bagheri Kani, già capo negoziatore per il nucleare. «Bagheri aveva più volte rimproverato al precedente Governo del presidente Hassan Rohani di aver accettato restrizioni sul programma nucleare del Paese e di aver permesso agli stranieri di accedere ai siti iraniani», evidenzia Acconcia.
Il populismo di Raisi
Ma chi era il presidente Raisi? «Un aspetto centrale della presidenza di Raisi è stato il populismo e, più in generale, la sua politica assistenzialista», spiega ancora Giuseppe Acconcia, docente di geopolitica del Medio Oriente alla Statale di Milano. «Durante il suo mandato, Raisi ha esteso i sussidi per i martiri della guerra, ha aumentato il numero delle forze paramilitari, ha reso più difficile l’accesso all’aborto, ha imposto il giorno della castità per le donne, ha aumentato i controlli della polizia morale sull’abbigliamento femminile e ha riempito le carceri di attivisti politici contrari al regime».
Raisi, 63 anni, era visto come un protetto del leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, e un potenziale suo successore. Eletto nel 2021 in un’elezione boicottata in modo inedito da una maggioranza di iraniani, con un tasso di astensione del 51,2% (74% a Teheran), il religioso era espressione della componente ultraconservatrice della politica iraniana. Raisi aveva avuto vari ruoli nella Repubblica Islamica dell’Iran, fino a diventare capo del sistema giudiziario del Paese nel 2019. Già allora la sua nomina venne considerata una svolta in senso ulteriormente conservatore del regime. Nel 1988, alla fine della guerra che l’Iran stava combattendo contro l’Iraq e dieci anni dopo la rivoluzione khomeinista, fece parte di una delle cosiddette «commissioni della morte» che ordinarono esecuzioni di massa di migliaia di prigionieri politici e combattenti nemici. Divenuto procuratore di Teheran nel 2014, è stato poi promosso capo del sistema giudiziario cinque anni dopo. Quello stesso anno, è stato inserito nella lista nera dei leader iraniani sanzionati dagli Stati Uniti per «complicità in gravi violazioni dei diritti umani». Ebrahim Raisi è stato anche uno dei più ferventi sostenitori del ritorno della polizia morale nelle strade iraniane, chiamando a una lotta accanita contro le donne che escono in strada senza velo.