L'intervista

«L’accordo su gas e petrolio tra USA e UE non potrà essere attuato»

Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, illustra le criticità dell'intesa siglata domenica con una stretta di mano da Donald Trump e Ursula von der Leyen
L'accordo tra USA e UE su gas e petrolio sarà di difficile attuazione. ©HANNIBAL HANSCHKE
Dario Campione
29.07.2025 21:30

Davide Tabarelli è il presidente di Nomisma Energia, la più importante società italiana indipendente di ricerca in campo energetico e ambientale, e insegna Termoeconomia e Ingegneria e sicurezza delle materie prime energetiche all’Università di Bologna. Il Corriere del Ticino lo ha intervistato a proposito dell’accordo siglato tra UE e USA sull’acquisto di gas e petrolio.

Professor Tabarelli, sulla base delle poche informazioni di cui al momento disponiamo, che cosa può davvero cambiare nel settore dell’energia dopo questo accordo UE-USA?
«Non tantissimo, in realtà. C’è molta scena, come capita spesso con il presidente Trump. Non cambia molto perché quello che l’amministrazione di Washington ha chiesto è sostanzialmente nel novero delle cose impossibili. Si potrebbe definire un auspicio. Le spiego: noi abbiamo stimato che l’Unione Europea importa ogni anno circa 90 miliardi di dollari di energia dagli Stati Uniti. Portare questa cifra a 250 miliardi l’anno significa triplicare la domanda. E questo è impossibile. Non esistono le condizioni materiali, per farlo. Oltre al fatto che gli Stati Uniti non hanno una tale capacità di esportazione. Bisognerebbe estrarre più gas, più petrolio, poi costruire navi per la rigassificazione. Servirebbero molti anni».

E allora, come si spiegano le parole di Trump?
«Come si suol dire, si è trattato di un booster, di una forte spinta politica, maggiore che in passato, a fare legame energetico tra Stati Uniti ed Europa. Qualcosa che, in verità, accade già dal 2021, da quando cioè la Russia ha iniziato ad ammassare truppe al confine con l’Ucraina. È da quattro anni che stiamo riducendo la dipendenza dalla Russia, e ancora discutiamo se interrompere del tutto le importazioni di gas da Mosca».

A questo proposito, che rapporto c’è in questo momento con la Russia sul piano energetico?
«Nel 2022 è stato deciso l’embargo sul carbone, sul petrolio e sui prodotti petroliferi, ma non sul gas. Senza il gas russo, l’Europa è ancora messa male. Il passaggio resta difficile: prima della guerra importavamo quasi 150 miliardi di metri cubi dalla Russia su una domanda totale di 320. Fare a meno del tutto di questi volumi è complicato, anche se siamo scesi a 30 miliardi di metri cubi. Dovremmo ridurre ulteriormente, ma c’è il problema dei prezzi, che restano tuttora alti. Questa mattina, alla borsa delle consegne fisiche di Amsterdam, eravamo ancora a 34 euro a Megawatt, a fronte dei 10 euro degli Stati Uniti».

Se i prezzi dell’energia in Europa sono tre volte quelli americani, non avrebbe senso comprare di più dagli Stati Uniti?
«Sicuramente. Ma tutto dipende, come le dicevo prima, dalla capacità di produzione e di esportazione. Al prezzo attuale, tutto il gas disponibile attualmente nel mondo vorrebbe venire in Europa. Il prezzo che paghiamo noi è altissimo. In realtà, dietro il proclama di Trump c’è altro».

Che cosa?
«C’è la determinazione politica che l’ha portato al potere di nuovo nella più grande democrazia del mondo. E la volontà di sancire e proclamare la Energy Dominance degli Stati Uniti. Qualcosa che, in verità, ha avviato Barack Obama quasi 20 anni fa. È stato Obama a eliminare il divieto di esportazione di petrolio deciso nei primi anni ’70 da un altro presidente storicamente importante, Richard Nixon. Non solo. Durante il mandato di Obama è esplosa la tecnologia di fratturazione idraulica, o fracking, che ha permesso agli USA di diventare il primo Paese mondiale per la produzione di gas. I terminali d’importazione di gas naturale liquefatto nei porti americani sono stati trasformati e adattati per l’esportazione, anche in virtù delle scelte adottate dalle amministrazioni democratiche. La produzione di gas, così, è molto cresciuta, assieme all’export, mentre il prezzo negli Stati Uniti si è abbassato. Non dimentichiamo che è stato il presidente Joe Biden a opporsi ai gasdotti North Stream I e North Stream II».

La geopolitica che si intreccia sempre con l’economia.
«Certamente. In Italia, il governo di Matteo Renzi decise di uscire dal progetto South Stream su pressioni americane, dopo che la Russia aveva invaso la Crimea nel 2014. La geopolitica prima di tutto, ma non solo. Quella dell’energia è un’industria ad alta intensità di capitale, con impianti di grandi dimensioni. Pensi ai rigassificatori: ci vogliono anni per costruire le navi, parliamo di dinamiche che non si definiscono nemmeno in un mandato presidenziale americano e riflettono sempre azioni in corso da anni. Quando Trump è tornato a Washington conosceva perfettamente il problema. La battaglia per la Energy Dominance non è nuova, ma l’ha fatta sua in modo politicamente intelligente. Così, l’altro giorno abbiamo visto questa esplosione di impegni che altro non sono se non slogan».

Che cosa succederà, allora? È possibile fare una previsione?
«Non lo so. Stando alle cose dette in Scozia, l’Europa dovrebbe arrivare a importare quasi il 70% di energia dagli Stati Uniti. Adesso siamo intorno al 15%, ed è già una cifra notevole. Oltretutto, anche un bambino delle elementari, guardando il mappamondo, si accorgerebbe quanto gli USA sono lontani. Noi europei abbiamo preso il gas dalla Russia perché, banalmente, la Russia è Europa. Ma abbiamo di fianco l’Africa e tutto il Medio Oriente, il posto al mondo dove ci sono più gas e petrolio a basso costo. Inoltre, anche sotto il profilo ambientale, importare da oltre Atlantico costa e inquina».

Insomma, secondo lei, per concludere, le dichiarazioni scozzesi sono funzionali alla propaganda, alla comunicazione politica, ma prima che si traducano in fatti, servirà tempo. E, forse, non succederà mai.
«Non succederà mai di arrivare ai livelli indicati. Che poi si possa ridare spinta a ulteriori contratti, può essere. Ad esempio, la settimana scorsa l’ENI ha firmato negli USA un contratto di lungo termine che era, però, in negoziazione da tempo. In ogni caso, chi firma contratti d’importazione di gas si impegna per un arco di 5-10 anni. E questo è un ulteriore elemento critico».

In che senso?
«L’Europa ha più volte detto che nel giro di una decina d’anni farà a meno del gas o, comunque, ne ridurrà tantissimo il consumo, in quanto intende portare a termine il suo Green Deal. Ecco, questa è un’altra grande contraddizione rispetto ai proclami di domenica. Che senso ha fare un accordo a così lungo termine se lo stesso accordo smentisce le proprie scelte politiche?».