L'intervista

«L’alibi retorico, argomentativo e contenutistico del generale Roberto Vannacci»

Massimo Arcangeli, ordinario di Linguistica all’Università di Cagliari, è tra i massimi studiosi italiani del linguaggio politico: «La parola-concetto della non-normalità»
Dario Campione
30.08.2024 06:00

La breve storia politica di Roberto Vannacci è indubbiamente legata alle parole: quelle del libro che lo ha fatto diventare, in pochi mesi, un punto di riferimento del conservatorismo italiano. E alle parole della politica dedica da sempre la sua attività di studioso Massimo Arcangeli, ordinario di Linguistica all’Università di Cagliari e autore, tra gli altri, di Il generale ha scritto anche cose giuste. Le finte verità del senso comune (Bollati Boringhieri, 2023), analisi dettagliata e puntuale proprio delle parole dell’europarlamentare italiano.

«Vannacci sfrutta, anche in modo puntuale, le più classiche armi della retorica e utilizza ampiamente quello che noi, generalmente, ancora oggi definiamo il luogo comune - dice Arcangeli al Corriere del Ticino - Alla base del suo linguaggio si scorge, chiarissima, la sottile arte della manipolazione. Nulla di nuovo, in verità, poiché non c’è linguaggio politico che non manipoli, anche quando è in buona fede. La politica è innanzitutto arte della manipolazione, e il linguaggio è la sua più formidabile arma».

L’aspetto fondamentale della comunicazione del generale, secondo Arcangeli, è tuttavia «aver fatto leva sulla questione del politicamente corretto trasformandolo in un alibi: retorico, argomentativo e contenutistico. Il politicamente corretto, in molti suoi eccessi, è intollerabile, io stesso in passato ho scritto un breve saggio sul tema - dice Arcangeli - Vannacci, bisogna riconoscerlo, ha saputo far passare gran parte di ciò che ha scritto come una sorta di levata di scudi contro il politicamente corretto. Il che però, voglio ribadirlo molto chiaramente, è un alibi. In realtà, il suo intento era ed è un altro, molto più profondo, pericoloso e preoccupante: sostenere la tesi che una democrazia si possa reggere su una maggioranza che detta la sua legge a qualunque minoranza. Il contrario di ciò che dovrebbe essere una democrazia compiuta».

Il discorso di Vannacci, spiega ancora il linguista dell’Università di Cagliari, è percorso trasversalmente da una «parola-concetto», che è insieme strategia di comunicazione e strategia politica: «Mi riferisco alla “non normalità” - dice Arcangeli - quando ne parla, per dribblare le inevitabili critiche, il generale fa riferimento a un fattore statistico. La sua idea, sostiene, è che si possa e si debba combattere le minoranze “non normali”, minoranze che si arrogano il diritto di opporsi alla maggioranza. Ma che cosa è normale? E che cosa è, invece, anormale, non normale?».

Siamo, insiste Arcangeli, nelle «periferie del linguaggio». Luoghi pieni di contraddizioni, nei quali lo stesso Vannacci «opera un continuo smarcamento perfino da sé stesso. È ovvio che alla base di tutto questo c’è una strategia precisa, forse nemmeno tutta farina del sacco del generale. Sono convinto che qualcuno abbia aiutato Vannacci a costruire il suo personaggio, ne potrei essere anche certo. Proprio perché alla base di tutto questo ci sono strategie retoriche, linguistiche e argomentative molto mirate e ben precise».

La forza del messaggio del generale, conclude Arcangeli, è poi sostenuta dalla sua «ripetitività», dal fatto che lo stesso messaggio «passa molto facilmente da un mezzo all’altro». Un fenomeno sempre esistito, ma che si caratterizza ora per un’inedita «intensità, soprattutto da quando esistono i social». Oggi, «la convergenza dei media è rapidissima, un messaggio affidato alla Rete va a finire in radio o in Tv molto prima e molto più facilmente di quanto non potesse accadere in precedenza». Anche la strategia della ripetizione continua di uno stesso messaggio diventa, quindi, fattore determinante, proprio per quella «intensità che, probabilmente, la storia della società occidentale e quindi la nostra storia, non ha mai conosciuto».