L’attesa del Papa è «una domanda di spiritualità»

«Francesco sapeva che l’autorità non è gestione del potere, ma una porta che, mentre aiuta a orientarsi nel caos e nella confusione del mondo postmoderno, apre all’“oltre”. Quell’“oltre” che Francesco, con la sua persona, ha reso visibile in modo luminoso». Lo ha scritto Mauro Magatti, lo scorso 24 aprile, su Avvenire. Il sociologo, professore all’Università Cattolica di Milano, aveva poi aggiunto: «In un’epoca in cui l’autorità è spesso svuotata, lasciando spazio solo al potere di fatto, Francesco ha mostrato che l’unico modo per rigenerare il significato della vita è attraverso l’autenticità della vita personale». Sono parole illuminanti, e da qui osserveremo, oggi e nei prossimi giorni, finché sarà necessario, quanto emergerà dal conclave. Ma sono parole, quelle di Magatti, che ci invitano a un’ulteriore riflessione, sull’influenza di un Papa, piuttosto che un altro, sulle nostre vite. Siamo in effetti abituati a ragionare sul peso delle guide politiche, meno - oggi - su quello delle nostre guide spirituali. Per questo, abbiamo bussato proprio alla porta dello stesso professore. Siamo però partiti da un’apparente contraddizione: da una parte una Chiesa spesso descritta in crisi, tra scandali ed erosione di fedeli, dall’altra la figura del Papa che rimane forte, un riferimento, la cui assenza in qualche modo ci scombussola. Magatti spiega: «Le religioni, oggi, non hanno più quel ruolo strutturale che avevano fino a qualche decennio fa, non sono più religioni di Stato. La secolarizzazione ha ridotto questo ruolo, ma allo stesso tempo le religioni - rimanendo al cristianesimo, alla Chiesa cattolica e in particolare riferendoci al papato di Francesco - diventano, quando sono capaci di esserlo, un punto di riferimento rispetto alla domanda di un senso della vita, all’esigenza di una dimensione spirituale. Viviamo una fase di transizione, insomma, in cui la religione non ha più il ruolo che aveva. Ma ne sta cercando un altro, per rispondere a una domanda, seppur più confusa forse, di spiritualità». Naturalmente, fa notare Magatti, a condizione che ci sia una relazione chiara tra ciò che viene detto e ciò che viene fatto. «E con papa Francesco questa relazione è stata particolarmente evidente, ed è quello che tante persone, anche non appartenenti alla Chiesa cattolica, gli hanno riconosciuto».
Progressisti o conservatori
Torniamo alle parole del professore, alla capacità di Francesco di mostrare l’oltre. Non è da tutti. Non è da tutti i papi aprirsi al cambiamento. «La Chiesa, d’altronde, come altre istituzioni, vive di regole, di ruoli, di lotte di potere anche, e spesso chi occupa posizioni apicali può rimanere ingabbiato dentro queste logiche. Un’istituzione, però, deve sempre essere istituente, deve sempre avere la capacità di rinnovarsi. Nella nostra cultura spesso emerge questa contrapposizione, sterile, tra progressisti e conservatori, con l’idea di fondo, banalizzata, che i progressisti vogliono sempre il nuovo, mentre i conservatori vogliono conservare tutto, immutato. Due posizioni, in realtà, impossibili da mantenere così come descritte, anche perché la vita è cambiamento e si sviluppa sulla base di ciò che eredita, senza buttare via tutto ciò che, di buono, la tradizione ha lasciato. In questo senso, c’è chi ha la capacità di stare dentro l’istituzione e rinnovarla, aprendola all’oltre, e chi invece fa più fatica». È qui, alla fine, che entriamo in gioco noi. L’influenza di un Papa - e lo abbiamo capito in particolare con papa Francesco - arriva sino a noi, può arrivare sino a noi. «Ora stiamo parlando del papato, ma vale anche per la politica, o l’impresa. La dimensione personale non può tutto. Papa Francesco non ha fatto tutto quello che avrebbe voluto fare. Ci sono state resistenze e opposizioni. Un Papa non è onnipotente. Però, allo stesso tempo, quell’ultimo miglio - diciamo così - diventa suo, lo fa la persona. E, soprattutto in una società mediatizzata come la nostra, può trasmettere spinte, pulsioni, valori, paure, sentimenti diciamo, emozioni che possono risultare significative come delle onde». Nel caso di Francesco è stato così. «Tutti lo hanno visto. Ci ricordiamo naturalmente i suoi atti più importanti, quelli che hanno inciso in tutto il mondo anche nel dibattito culturale e intellettuale, e non solo politico, ma le persone comuni si ricordano anche i piccoli gesti. E questo sin da subito, dal suo primo viaggio, a Lampedusa, e fino all’ultimo, perché Francesco ha voluto morire sul campo, ha voluto essere in piazza San Pietro fino a poche ore prima della morte, spendendosi per quello che era il suo compito». Mauro Magatti sottolinea come, oltre alle parole, arrivino anche i gesti, anche i più piccoli. E possono arrivare direttamente a noi, quasi senza rete. Arrivano alle persone, «poi ognuno ne fa quel che vuole». Possiamo farle nostre, interiorizzarle, oppure anche guardare dall’altra parte.
Il peso delle aspettative
Seguendo il discorso del professore della Cattolica, sembrerebbe allora che Francesco abbia alzato l’asticella delle nostre aspettative, di ciò che possiamo aspettarci da un Papa, anche in senso politico - temporale -, ma soprattutto spirituale. Ci chiediamo, e chiediamo a Magatti, come sono cambiate nel tempo le aspettative rispetto alle nostre guide spirituali. «Questo è un tema centrale. E infatti le discussioni, in questi giorni di avvicinamento al conclave, giravano attorno a questo elemento. Discussioni tra chi pensa che la Chiesa debba essere guida attraverso una testimonianza - tra cui la testimonianza del Papa -, e quindi vuole un Papa in linea con Francesco, da questo punto di vista, e chi invece pensa che la forza della Chiesa, la sua stabilità, dipenda da altri elementi, dalla dottrina, dal rito. Questa seconda posizione la troviamo in tutte le grandi religioni: quando è più ragionevole, la chiamiamo conservatrice, mentre quando è estremista, diventa fondamentalista. Dobbiamo considerare che il nostro mondo, in particolare l’Occidente contemporaneo, è un mondo fondamentalmente nichilista. E allora vediamo per la religione due possibili risposte, una di rafforzamento dell’identità, e l’altra - quella che ha dato Francesco - che, pur riconoscendo un problema di identità, affronta la questione come una materia processuale e relazionale».
Nell’epoca post-religiosa
Si torna lì, si torna a Francesco. Lo stesso Mauro Magatti, sempre nel suo editoriale su Avvenire, aveva scritto: «Bergoglio ha indicato che per ricucire questa relazione (quella tra fede e ragione, ndr) non basta una nuova teoria filosofica o una dottrina imposta con rigore intellettuale e disciplinare. La via, invece, è quella tracciata dal Vangelo: tenere insieme il verticale e l’orizzontale. Pregare sentendosi precari e fragili su questa terra e ricevere da questa apertura la forza di amare il mondo intero. A partire dagli ultimi che sono il punto di rottura delle nostre certezze, delle nostre sicurezze, delle nostre chiusure». Bergoglio - ragioniamo con Magatti - aveva generato determinate aspettative sin dalla scelta del nome: Francesco. Una scelta che era arrivata sin nella nostra interiorità, rispondendo a una sorta di bisogno di spiritualità. Un aspetto, questo, che è condizionato forse anche dai media? «I due aspetti sono collegati. Viviamo in un’epoca post-religiosa, in cui la religione non ha più quel ruolo di cornice istituzionale che aveva una volta, ma non è che ciò abbia generato un mondo in cui tutti sono felici e soddisfatti, in cui tutti stanno bene. Lo vediamo chiaramente. Ci sono tante solitudini, un senso di abbandono, tanta incertezza, e allora le persone, individualmente ma anche collettivamente, continuano ad avere domande di senso che riguardano la sfera religiosa. Domande latenti. E non sappiamo come rispondere adeguatamente a queste domande. La dimensione personale, della testimonianza, oggi ha un ruolo rilevante, certo, ma neppure si può negare la rilevanza di una dimensione istituzionale come quella della Chiesa cattolica. Certo, oggi forse questa dimensione arriva in secondo piano». In fondo, anche questa è l’eredità di Francesco.
