L’attivismo virtuale degli hashtag

Una volta quel simbolo, quello del cosiddetto cancelletto, lo si utilizzava soltanto quando ci si collegava alla segreteria telefonica legata a un servizio per la clientela. «Prema cancelletto se...» e via a cercarlo sulla tastiera. Poi sono arrivati gli smartphone, i social media – Twitter in particolare – e quello stesso simbolo è entrato in una nuova dimensione, neppure più legata alle cose da nerd, ovvero al linguaggio utilizzato in programmazione – lì già si utilizzava, il segno “”, ma era per pochi, evidentemente. Oggi il cancelletto preannuncia un hashtag, ovvero una sorta di etichetta che alleghiamo alle parole chiave dei nostri pensieri, perlomeno di quelli espressi via social: un esempio insomma di tagging sociale e conversazionale, un metadato collettivo. La sensazione però è che da strumento in qualche modo orizzontale, democratico, l’hashtag stia pian piano assumendo una dimensione più verticale, sfruttata a fini politici e culturali. Il suo utilizzo ha abbandonato insomma la naïveté dei primi tempi, di quando lo si infilava un po’ a casaccio all’interno dei tweet: c’è una maggiore consapevolezza, d’altronde, nell’affrontare la nostra vita sociale.
Lo stesso inventore degli hashtag – degli hashtag per come li conosciamo oggi, chiaramente – Chris Messina ammette (vedi intervista sotto) che la sua era sin dall’inizio un’idea sociale, qualcosa che potesse legare gli utenti di Twitter, uno strumento di condivisione. Ovvio che uno strumento allora diventi in fretta strumentalizzabile. E la condivisione sfruttabile. Gli stessi vertici di Twitter, inizialmente scettici di fronte all’iniziativa di Messina, furono costretti ad accettare la novità in quanto tale, tra pregi e difetti. Poi si sono adeguati anche Instagram e, per ultimo, soltanto nel 2013, Facebook. La stessa parola, hashtag, con il concetto che si porta appresso, è diventata di uso comune, valicando il confine dell’online ed emergendo pure nei media tradizionali e nel linguaggio di tutti i giorni. Oggi non c’è slogan, non c’è appunto parola chiave, che non abbia con sé un hashtag. E così, per esempio, i drammatici fatti di sangue nella sede di Charlie Hebdo ispirarono il noto JeSuisCharlie, una sorta di manifesto, un messaggio cappello che non richiedeva neppure chissà quali altri aggiunte. Bastava twittare quell’hashtag per entrare a far parte di una rete universale, assolutamente slegata dai confini fisici.
Si arriva quindi a parlare di «hashtag activisme», ovvero di attivismo via hashtag, una definizione (recentissima) che concede, ça va sans dire, un carattere più superficiale a tale spinta partecipativa. Una spinta in qualche modo narcisistica e non del tutto efficace, innocua insomma, comoda persino. Una volta si scendava in piazza, si dice, mentre ora pensiamo di sistemare la nostra coscienza con un tweet, con un hashtag, appunto. Ecco perché c’è una bella differenza allora tra un #BlackLivesMatter, che diede voce – e continua a darla – a un’intera comunità, a una minoranza, e lo stesso, più emozionale, #JeSuisCharlie. I livelli, così come le cause in gioco, sono differenti, ma non sono i numeri, né le condivisioni quindi, a dirlo. Il fatto è che ci sono hashtag legati ad azioni (basti pensare anche a quelli utilizzati nel corso della Primavera araba o allo scatenante #OccupyWallStreet), altri a sentimenti, a emozioni. Rientra in quest’ultima categoria anche il #BringBackOurGirls, utilizzato di pancia nella denuncia nei confronti del gruppo Boko Haram, che vide in prima linea anche parte dello star system americano.
Al di là del contesto politico – va citato anche il trumpiano #MAGA, coniato dall’attuale presidente americano, acronimo per «Make America Great Again» – gli hashtag, la loro creazione e il loro utilizzo, alquanto volubile, ci dicono molto di ciò che siamo diventati e di ciò che stiamo diventando. Lo fa il MeToo. Slogan diventato di uso comune in seguito al «caso Weinstein», il MeToo intrinsecamente legato appunto all’epoca in cui è sbocciato, al cancelletto, ai social media quindi (la sua inventrice, Tarana Burke, nel 2006 sfrutta la piattaforma di Myspace, mentre nel 2017 l’attrice Alyssa Milano, per rilanciarlo, quella di Twitter), alle fake news (altro hashtag abusato: FakeNews), a una condivisione che va al di là dell’informazione, della denuncia e della partecipazione. Il MeToo porta con sé infatti uno storytelling molto moderno, tra fatti autentici e ricostruzioni, anche piuttosto avventurose, che rendono confusi i limiti del fenomeno. Limiti che si perdono nella fluidità della vita social, dei nostri interessi e della nostra attenzione.
L’INVENTORE: «ALL’INIZIO MI DIEDERO DEL NERD»

Chris Messina è un avvocato californiano, evangelista tecnologico, nonché inventore dell’hashtag (inteso come simbolo da utilizzare per indicizzare degli argomenti su Twitter).
Come ha avuto l’intuizione di utilizzare, lei per primo e con il significato che oggi tutti gli attribuiamo, il simbolo “#”?
«Alcuni tra i primi utilizzatori di Twitter, me compreso quindi – io sono l’utente numero 1186 – volevano rendere questo social più rilevante secondo i propri interessi. E al contempo si voleva rendere più immediata la possibilità di “origliare” conversazioni potenzialmente interessanti. Per molti, Twitter avrebbe solo dovuto aggiungere dei forum web, con tutti i tipici overhead di gestione, ma personalmente sentivo che i forum a disposizione erano già abbastanza. E poi i forum virtuali sarebbero stati un fastidio nell’imminente era... mobile. Va ricordato infatti che l’Phone usc solo pochi mesi prima che io suggerissi l’uso degli hashtag. Così pensai che il modello di canale IRC (Internet Relay Chat, il protocollo per la messaggistica interattiva su internet) avrebbe potuto funzionare, anche perché aveva già una sua convenzione: ogni canale aveva infatti quale prefisso il simbolo “#”. Ho ampliato quell’idea in modo tale che si potesse aggiungere ai tweet un numero indefinito di hashtag, semplicemente utilizzando appunto il cancelletto quale prefisso alle parole. Così facendo, il proprio tweet sarebbe stato aggiunto a un canale virtuale che altre persone avrebbero potuto seguire. Il mio obiettivo era offrire una soluzione che fosse semplice, efficiente e funzionante, che potesse ricalcare gli sms. Inizialmente, dieci anni fa, Twitter si usava in quel modo...»
Aveva anche un intento sociale, quindi?
«Assolutamente. Credevo e credo strenuamente nella forza e nell’importanza dei social media, in particolar modo in favore delle persone che altrimenti non potrebbero dare voce ai propri pensieri. Pertanto, qualsiasi cosa si potesse fare per rendere più facile, semplice e più accessibile questa tecnologia, beh avrebbe fatto al caso mio. Quello era il mio obiettivo. L’hashtag non richiedeva alle persone di imparare a utilizzare sofisticati software. Sarebbe bastato aggiungere un simbolo alle parole utilizzate. Di base non è niente di più di questo».
Immaginava, nel 2007, che questo simbolo sarebbe cresciuto a tal punto?
«No, davvero. Voglio dire: all’epoca non si sapeva neppure se Twitter sarebbe sopravvissuto. Per non parlare di come si è diffuso, nel frattempo, il fenomeno dei social media. Gran parte della cultura di internet che ha costituito la mia vita anni fa, penso alle GIF, ai meme, agli emoji, è entrata nella consapevolezza popolare, a tal punto da diventare indistinguibile rispetto alla cultura... quotidiana. Il presidente degli Stati Uniti ora comunica via Twitter e usa gli hashtag! Se mi aveste chiesto, dieci anni fa, se ci sarebbe davvero potuto accadere, non l’avrei detto possibile. Eppure, eccoci qui».
È vero che Twitter, ovvero i suoi responsabili, inizialmente non apprezzarono l’utilizzo degli hashtag?
«Il giorno dopo aver scritto il post, sul mio blog, in cui spiegavo come pensavo che gli hashtag potessero essere utili alla comunità di Twitter, entrai negli uffici della società a South Park, a San Francisco e parlai a Biz Stone, uno dei cofondatori, della mia idea. Era d’accordo sul fatto che gli argomenti e la personalizzazione degli stessi su Twitter fossero una sfida, ma non credeva che la mia soluzione potesse decollare. Disse che gli hashtag erano troppo “nerd” per prendere piede. Fu allora che iniziai a lavorare con l’ecosistema di sviluppatori attorno a Twitter. Per finire, per farla breve, Twitter iniziò presto ad acquisire società e app che supportavano gli hashtag, ormai già piegati al servizio pubblico: a quel punto non si poteva più rimuovere quel supporto. Biz stesso e Ev Williams, un altro fondatore, nonostante la cordialità nei miei confronti, non ammisero che avevo ragione. Poi, anni dopo, Jack Dorsey, diventato di nuovo CEO, mi ringraziò per nome nel corso di una conferenza per sviluppatori di Twitter. Fu un momento definitivo per me».



Secondo lei oggi gli hashtag si utilizzano in modo corretto?
«In generale, penso che le persone siano diventate piuttosto sofisticate nell’utilizzo degli hashtag, sia nel crearli che a livello di frequenza d’uso. Li usano sia nelle conversazioni digitali che nella vita reale, ottenendo buoni effetti. Negli ultimi due anni abbiamo visto come tanta gente si sia radunata attorno a determinati hashtag, dando origine a una consapevolezza sociale attorno a conversazioni importanti, fondamentali. Penso al MeToo o a BlackLivesMatter. Anche se ci sono ancora molti abusi, usi impropri o spam degli hashtag, ci sono anche applicazioni incredibilmente preziose e importanti».
A volte si ha in effetti la sensazione di un inquinamento da hashtag...
«Gli hashtag hanno questa incredibile qualità, per cui quelli più popolari vengono effettivamente “spammati” e inquinati, ma altri, persino quelli di livello intermedio, possono essere abbandonati non appena superati. Poiché il costo della creazione di un nuovo hashtag è zero, è relativamente organico spostarsi da una conversazione all’altra o provare diverse angolature o consentire alle conversazioni hashtag di salire e scendere in modo naturale, man mano che l’interesse aumenta o diminuisce. C’è un sacco di inquinamento nel panorama dei social media, oggi, ma non direi che gli hashtag rendano la situazione esistente peggiore di quella che sarebbe altrimenti».
Parlava di hashtag popolari; a suo avviso quali sono stati quelli che più hanno segnato la nostra storia recente?
«Me ne vengono subito in mente diversi: BarCamp, il primo hashtag utilizzato dal sottoscritto, oppure DontGo, il primo usato al di fuori del mondo della tecnologia, legato a un movimento alla base del Tea Party. Poi, senza dubbio, i già citati MeToo, BlackLivesMatter e anche ArabSpring».
Quale ulteriore strumento, oggi, potrebbe ancora servire ai social media?
«Siamo in un periodo interessante nell’evoluzione dei social media, nel quale queste grandi piattaforme stanno lottando per mantenere le persone interessate ai propri servizi, per tenerle calme e positive nei loro confronti. In teoria, c’è spazio per social network più di nicchia o più verticali, ma il problema è permettere alle persone di gestire facilmente i propri accessi, di sentirsi sicure, di trovare i propri amici e di ricevere notifiche davvero rilevanti in modo efficiente. È possibile che emerga in futuro un modello più decentralizzato, aumentando la concorrenza nello spazio dei social network, ma appare sempre più complesso il lancio e il successo di tali nuove piattaforme, data la potenza e la portata degli “incumbent” (ovvero di chi già sovrasta il mercato, ndr). Quindi sì, potrebbero servire ulteriori strumenti, ma è altresì difficile immaginare che le persone siano disposte ad aggiungere più scelte, più decisioni e ulteriori nuovi contesti che tengano traccia delle loro vite, in particolar modo considerando lo spam, le molestie, il bullismo e la generale negatività che sempre più sembrano prolificare nel mondo moderno. Con ciò non voglio dire che credo sia impossibile, ma potrebbe richiedere una nuova, più giovane, generazione, che sia in grado di formulare ipotesi di base molto diverse su come i social media – oltre alle reti sottostanti – dovrebbero operare o su come dovrebbero essere gestiti».
MATTHEW HIBBERD: «UN NUOVO MODO DI FARE POLITICA BASATO SUL LINGUAGGIO SCRITTO»

Matthew Hibberd è professore di media management, media economics e media and cultural industries all’Università della Svizzera italiana.
Professor Hibberd, gli hashtag – l’utilizzo che ne facciamo – possono dirci qualcosa di ciò che siamo, di ciò che stiamo diventando?
«Sì, come tante cose in questo mondo, caratterizzato dalla globalizzazione. Gli hashtag dimostrano come sia facilitata oggi la comunicazione, anche tra culture diverse, tra lingue diverse. Il loro simbolo non è nuovo – lo si utilizzava già in vari ambiti – ma ora, chiaramente, nel mondo dei social media ha trovato una nuova vita, facilitando appunto ulteriormente la comunicazione. È uno strumento, qualcosa di utile, che ci permette tra l’altro di comunicare i nostri sentimenti in modo più veloce, più immediato. Non so se attraverso gli hashtag e attraverso essi esclusivamente possiamo davvero definire ciò che siamo, ma certo permette un dialogo più istantaneo tra differenti culture».
Come mai oggi abbiamo tanto bisogno di trovare delle parole chiave che ci rappresentino?
«In realtà abbiamo sempre avuto bisogno di simboli, di diversi modi per esprimerci. Basti pensare ai gesti nel contesto del linguaggio non verbale, del corpo. Il cambiamento ora nasce da queste nuove tecnologie, dalla globalizzazione appunto, dalla tendenza a comunicare con persone che stanno al di fuori di quella che sarebbe la nostra cerchia naturale di conoscenze. I giovani, lo vedo in maniera diretta, hanno reti di contatti molto allargate, che non tengono conto dei confini tradizionali e delle lingue madre. Gli hashtag entrano allora in questo discorso, sociale direi».
Possiamo considerare l’hashtag come un nuovo strumento politico?
«Sì, fa parte del processo di comunicazione politica. Ciò che non sappiamo è quale sia il suo impatto reale sulla popolazione. Certo è un modo di fare politica oggi, via social, in particolare via Twitter, basandosi comunque sul linguaggio scritto. L’hashtag non viene utilizzato da solo, ma all’interno di messaggi più elaborati. La comunicazione politica d’altronde, lo sappiamo, cerca e utilizza continuamente strumenti via via più moderni. Ora non so dire però se sia paragonabile, l’utilizzo degli hashtag, per esempio all’impatto che ebbe la televisione. Penso al dibattito televisivo tra John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon, un vero spartiacque nella storia del confronto politico. Ecco, l’impatto della televisione fu devastante. Non credo che con gli hashtag siamo a quei livelli: fanno parte, con i nuovi mezzi con cui si accompagnano, del processo di comunicazione politica, questo sì. Sono fondamentali nel raggiungere la gioventù moderna. Basti pensare alle elezioni americane».



È stata coniata la definizione «hashtag activisme», che scredita l’attivismo nascosto dietro l’utilizzo degli hashtag...
«Chi fa attivismo, chi ci crede davvero, sicuramente farà attivismo a diversi livelli, senza fermarsi all’utilizzo di un hashtag. L’attivismo richiede prima di tutto autentica partecipazione. Il contesto politico attuale, con le due aree sempre più lontane tra loro, spostatesi su posizioni estreme, ha provocato anche un maggiore attivismo. Penso alla figura di Trump, così divisoria, al punto da creare delle contrapposizioni anche sui social media. Ciò che vediamo sui social media è una rappresentazione, in fondo, delle posizioni politiche reali».
Non denotano superficialità però la facilità nell’utilizzare certi hashtag e la tendenza a prendere parte solo a discussioni sui social media?
«Vedo le cose diversamente, forse anche perché quotidianamente ho degli scambi con la gioventù di oggi. Non parlerei di superficialità. È indubbio che oggi facciamo le cose diversamente rispetto a come le si facevano nelle generazioni che ci hanno preceduti. Il consumismo è sempre più invadente – al punto da farmi provare persino una certa tristezza nei confronti dei ragazzi di oggi per la situazione economica nella quale devono vivere –, le esigenze sono cambiate, non sono le stesse per esempio di quelle del dopoguerra, quando la democrazia era una novità. Ora i processi democratici continuano a rinnovarsi, per cui la gioventù è confrontata a una situazione nuova. Ma trovo che viva questa situazione con grande serietà. Non definirei quindi la modernità dall’utilizzo che si fa degli hashtag o dei social. I social media, Twitter in particolare, rappresentano una parte della vita moderna, rappresentano la complessità delle nostre vite. Ho solo un dubbio.»
Prego...
«Io ho vissuto un’era in cui la televisione raggiungeva tutta la popolazione e, in qualche modo, la teneva unita. Adesso – lo dimostra la varietà di mezzi di comunicazione e di informazione – siamo un popolo più spezzato. Ecco, mi chiedo, e non ho una risposta, se sia ancora possibile mantenere una coesione sociale. Hashtag o non hashtag...»
DA SAPERE

Il social network Creato sulle ceneri di un progetto (mai decollato) basato sulla condivisione di podcast, Twitter ha visto la luce il 15 luglio del 2006. Quattro i fondatori: Biz Stone, Evan Williams, Noah Glass e Jack Dorsey. L’idea decisiva fu proprio di quest’ultimo.
Il tweet di Chris Messina Chris Messina, avvocato di San Francisco, il 23 agosto del 2007, la butta lì, con un tweet: «How do you feel about using #(pound) for groups. As in #barcamp (msg)?». È stato lui quindi a proporre questo utilizzo del simbolo del cancelletto. I barcamp? Una rete internazionale di non-conferenze.
E quello di Nate Ritter È il 22 ottobre del 2007. A San Diego si scatena un incendio. Nate Ritter, imprenditore nel settore ICT, utilizza – su suggerimento dello stesso Messina – l’hashtag #sandiegofire per caratterizzare i suoi tweet sui drammatici fatti in corso. Tale hashtag viene cercato e ripreso in tutta America.
L’ufficializzazione Inizialmente restio, Twitter decide di adeguarsi e di fare dell’hashtag un proprio strumento strutturale, rendendolo un collegamento ipertestuale. È il 1. luglio del 2009: un successo per Messina, che si era sentito dare del «nerd» la prima volta in cui parlò a Biz Stone della sua idea.
Sulla Treccani «In alcuni motori di ricerca e, in particolare, in siti di microblogging, parola o frase (composta da più parole scritte unite), preceduta dal simbolo cancelletto (#), che serve per etichettare e rintracciare soggetti di interesse» Così nel 2012 la prestigiosa Enciclopedia Treccani inserisce ufficialmente il termine hashtag nella lingua italiana.
L’arrivo su Facebook Anche gli altri social media lentamente introducono gli hashtag tra i propri strumenti. Facebook lo fa per ultimo, arrivando quindi dopo Instagram, Tumblr e Pinterest, il 12 giugno del 2013. L’utilizzo è, per tutti, identico a quello suggerito da Twitter.
Il caso BlackLivesMatter l movimento attivista Black Lives Matter nasce ufficialmente il 13 luglio del 2013, ispirato da una serie di tweet attorno all’ssoluzione di George Zimmerman, reo di aver ucciso un anno prima il 17enne afroamericano Travyon Martin. Tweet caratterizzati dall’ashtag #BlackLivesMatter.
Il fenomeno MeToo È stata l’attivista Tarana Burke a usare per prima l’espressione «Me Too», nel 2006, su Myspace, ma il caso social si è sviluppato universalmente solo lo scorso anno, nel pieno della vicenda Weinstein. Dell’attrice Alyssa Milano l’idea di utilizzare l’hashtag #MeToo il 15 ottobre del 2017.