«L’autonomia dell’università è il motore della nostra missione»

Professoressa Lambertini, l’USI il 10 maggio si aprirà al territorio, di cui fa parte da quasi 30 anni. Qual è oggi il suo ruolo? E qual è oggi il suo peso nel territorio e sul territorio?
«In questi primi 30 anni abbiamo sviluppato le tre missioni tipiche delle università, con percorsi di formazione a tutti i livelli, progetti di ricerca scientifica e attività di trasferimento della conoscenza e innovazione. Abbiamo oltre 4.500 studenti, 30 milioni di fondi di ricerca competitiva annui, 14.000 alumni nel mondo, 15 startup attualmente incubate e diverse decine di brevetti. Perseguendo le nostre tre missioni contribuiamo alla formazione di capitale umano qualificato, alla competitività del territorio, al progresso e al dialogo tra scienza e società. Diamo il nostro contributo per risolvere sfide locali come la fuga di cervelli, la sostenibilità, l’invecchiamento della popolazione e la penuria di medici, a titolo di esempio. Allo stesso tempo, affrontiamo le grandi sfide globali conducendo ricerca d’avanguardia e sviluppando innovazioni applicate in tutto il mondo. Negli anni l’USI si è distribuita sul territorio con i campus di Lugano, Mendrisio e Bellinzona, e con antenne a Locarno, Cadro e Airolo, rafforzando il suo legame con il Cantone. Nonostante questi risultati talvolta ho l’impressione che l’USI non sia ancora abbastanza radicata nel cuore della popolazione. Vogliamo infatti farci conoscere meglio da giovani e adulti della nostra regione. Queste “porte aperte” ci offrono l’opportunità di farci conoscere attraverso attività scientifiche che sono al tempo stesso ludiche e accessibili».
Basterà una giornata di porte aperte per far entrare il mondo fuori all’interno dell’università? Ci sono margini per farla vivere ancora di più come una sorta di piazza d’incontro?«Una sola giornata non basterà. Il nostro obiettivo con questa giornata è che emerga con forza un messaggio: l’USI appartiene a tutto il territorio, e quello che facciamo nella ricerca e nella formazione riguarda la vita di ciascuno, è rilevante e vicino alle persone. L’USI è già oggi una piazza di incontro, con oltre 200 eventi pubblici all’anno e un’ulteriore vasta gamma di attività per favorire il dialogo tra scienza e società».
Lo scorso anno, al Dies, lei stessa aveva parlato dell’USI come di una via per il futuro. Ma aveva anche evidenziato i tagli alle risorse di cui la formazione è vittima. E non lo è solo in Svizzera. Sembra quasi esserci un’ondata di sottovalutazione del peso di formazione e ricerca.
«È vero: assistiamo a una tendenza preoccupante a sottovalutare l’importanza della formazione universitaria e della ricerca. Credo sia dovuto, da un lato, a una visione a breve termine che fatica a riconoscere i benefici, spesso di medio periodo, di investimenti in questo settore. C’è una crescente e comprensibile pressione sui bilanci pubblici, ma la risposta deve essere ferma: università, ricerca e innovazione non sono costi, ma investimenti. A livello svizzero a febbraio è stata pubblicata una presa di posizione di swissuniversities, Accademie delle scienze, Consiglio dei politecnici, Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e Innosuisse: hanno calcolato che ridurre gli investimenti nella promozione della ricerca e dell’innovazione avrà un impatto negativo rilevante sull’economia svizzera e che ogni franco risparmiato comporterà una perdita economica fino a cinque franchi. Al di là delle cifre, mi preme sottolineare un altro ruolo sottovalutato, ma importante in questa epoca in cui tutto viene relativizzato. Il parere della scienza non è solo “una voce tra le tante altre”, come ad alcuni può far comodo far credere. Il suo valore si fonda su metodologie condivise e replicabili. Il metodo scientifico fa sì che i saperi prodotti dalle università siano solidi e condivisi. Credo che in un’epoca segnata dalla disinformazione e dal relativismo, ribadire il valore del metodo scientifico nel dibattito pubblico sia importante».
L’università e in particolare l’USI sono ancora, nonostante tutto, una via per il futuro?
«Sì, l’università resta una via imprescindibile per il futuro, soprattutto in un contesto complesso e in rapida evoluzione come quello attuale. La formazione, la ricerca e il trasferimento delle conoscenze sono strumenti fondamentali per affrontare le sfide che ci aspettano. Pensiamo a temi come la sicurezza informatica e la sovranità dei dati, la privacy, la transizione tecnologica e digitale, la sostenibilità– tutti argomenti in cui l’USI è all’avanguardia. Con la rapida avanzata dell’intelligenza artificiale e la conseguente trasformazione del mondo del lavoro, l’università ha il compito cruciale di preparare le nuove leve non solo a utilizzare queste tecnologie, ma anche a governarle, a comprenderne le implicazioni etiche e sociali, e a sviluppare quelle competenze critiche e interdisciplinari che resteranno fondamentali in ogni scenario futuro».
Che ruolo ha all’interno delle sue giornate l’attenzione alle questioni finanziarie e politiche? Si aspettava forse una maggiore libertà d’azione?
«Le questioni finanziarie e politiche occupano una parte significativa del mio tempo. Essere rettrice di un’università significa non solo occuparsi della missione accademica, ma anche garantire le condizioni quadro per poter operare. Non sono giunta in questo ruolo nel migliore dei periodi, viste le pressioni sulle finanze pubbliche. Non è quindi sempre semplice dialogare con i decisori politici, che devono fronteggiare molte priorità contemporaneamente. Dal punto di vista della libertà d’azione, in un mondo ideale mi piacerebbe dedicarmi maggiormente a tematiche puramente accademiche, orientata solo dalla qualità scientifica, ma comprendo l’importanza di integrare i vincoli finanziari. Più in generale, visto che lei parla di libertà, ne approfitto per ribadire che l’autonomia delle università è un principio fondamentale. L’autonomia è fondamento e motore della nostra missione, garantisce la nostra capacità di agire, scegliere e contribuire con indipendenza al bene comune. Tendiamo a dare questo prerequisito per scontato, ma non lo è. Neppure nei Paesi occidentali: guardiamo ad esempio con solidarietà agli atenei statunitensi che oggi si trovano a dover difendere, anche nelle aule dei tribunali, il diritto all’autonomia accademica».
In questo senso, sempre lo scorso anno, rivendicò per il rettorato tutta la parte gestionale e amministrativa, prendendo un attimo le misure, le distanze, rispetto al Consiglio. A che punto è il processo di riorganizzazione della governance?
«Lo scorso anno ho ritenuto utile ribadire la distinzione tra l’alta sorveglianza, che spetta al Consiglio dell’Università, e la gestione operativa, che compete al Rettorato e alla Direzione operativa. Oggi la situazione è più chiara: mancano ancora alcuni tasselli, ad esempio stiamo lavorando a una revisione del nostro Statuto, e lo stiamo facendo in un clima di collaborazione nella convinzione che una governance moderna sia un elemento chiave per il successo dell’USI nei prossimi anni».
In che modo l’USI può contribuire ad affrontare la complessità attuale e a risolvere questa fase di incertezza globale?
«Semplicemente lavorando alle nostre tre missioni fondamentali: offrire una formazione di qualità, promuovere una ricerca scientifica all’avanguardia e favorire l’innovazione e il trasferimento delle conoscenze. È al contempo importante che venga riconosciuto e rispettato il ruolo centrale che svolgiamo».
L’influenza di questa incertezza si fa sentire sulla gestione dell’università anche al di là delle finanze? Si avverte una differenza tra il pre- e il post-Trump bis?
«Pianificare oggi significa confrontarsi con scenari che cambiano rapidamente: geopolitica, accordi bilaterali, tensioni commerciali, rapide evoluzioni tecnologiche. Si avverte un clima internazionale instabile, che ha ripercussioni anche sul mondo accademico. Riguardo alla seconda domanda, certamente: nel mondo universitario internazionale si avverte un effetto del “post-Trump bis”. Negli Stati Uniti, dove ho lavorato a lungo, si assiste a un attacco all’autonomia accademica, con finanziamenti vincolati a condizioni ideologiche e crescenti pressioni sulla libertà di ricerca e di espressione. Gli atenei stanno reagendo, Harvard in testa. Mentre ci auguriamo che questa situazione di pressioni politiche migliori, notiamo che la situazione negli Stati Uniti sta spingendo numerosi ricercatori, anche di alto profilo, a guardare di nuovo all’Europa come a un contesto più favorevole alla ricerca libera e indipendente».
