Lavoro da casa per uno su tre

Da misura di emergenza a condizione irrinunciabile. Esploso con la pandemia, oggi il telelavoro è diventato per molti un’abitudine consolidata, quasi essenziale. Anche in Ticino. Nel nostro cantone, infatti, il lavoro da casa riguarda un occupato su tre. Tanto? Poco? Difficile dirlo. Di sicuro, come illustra uno studio pubblicato dall’Ufficio cantonale di statistica (USTAT), il fenomeno appare in aumento. Anche se, a ben guardare, già prima della pandemia il telelavoro mostrava una tendenza in crescita. La crisi sanitaria del 2020, però, ne ha senza dubbio accelerato la diffusione. «Molte aziende - come ricorda lo studio dell’USTAT di Silvia Giacomini - hanno introdotto questa modalità di impiego per necessità e, in seguito, l’hanno consolidata attraverso regolamenti e infrastrutture dedicate».
Da forzatura a normalit
Stando al dato più recente, quello del 2024, un lavoratore residente su tre lavora almeno in parte da casa. Si tratta di 54.705 persone, un numero ben più alto di quello registrato dieci anni fa, quando la quota di chi lavorava dal proprio domicilio era ferma al 24% (38 mila persone).
La massima diffusione del telelavoro, come detto, è stata toccata nel 2020, con il 36,8% degli occupati. E, dopo quel picco, nel biennio 2021-2023 i numeri sono via via scesi, passando dal 36% al 32,8%. Un calo, dice l’USTAT, che riflette «un possibile rimbalzo post-pandemia: una volta superata la fase di emergenza, molte imprese e lavoratori sono tornati alle modalità operative precedenti, mentre in altri casi il telelavoro è stato mantenuto o regolamentato in forma stabile, diventando parte integrante dell’organizzazione del lavoro». Ma come spiega il professor Andrea Martone, docente di Organizzazione aziendale e collaboratore di Alixio Svizzera, «oggi, secondo le ricerche, durante i colloqui di lavoro i giovani chiedono per prima cosa se l’azienda prevede il telelavoro. E, spesso, questo è un discrimine per accettare o rifiutare il posto», a testimonianza di quanto il cosiddetto «smart working» sia diventato per molti una condizione necessaria. «Il COVID ha aperto una frontiera fondamentale, facendoci capire che le persone possono riunirsi senza il bisogno di spostarsi. Prima c’era Skype, sì, ma quasi nessuno riteneva culturalmente accettabile che una riunione di lavoro fosse fatta online. Oggi, al contrario, persino le prime fasi di selezione del personale avvengono da remoto».
La pandemia, ribadisce il professore, ha cambiato tutto. «Ci ha fatto scoprire che si può lavorare a distanza, che si possono fare i colloqui di assunzione a distanza e ci si può coordinare a distanza. Una volta assaggiato il frutto proibito, però, i dipendenti hanno iniziato a voler evitare i costi e i tempi di spostamento per recarsi al lavoro, cercando anche di conciliare meglio i bisogni personali e familiari. Al punto che, attualmente, la mancanza del telelavoro nel pacchetto di offerta rappresenta un grosso svantaggio per le aziende».
Pregiudizi e limiti
Eppure, stando ai dati dell’USTAT, in Svizzera la situazione non è omogenea, con il Ticino che si trova qualche punto percentuale indietro rispetto al resto del Paese, dove il telelavoro appare più radicato e diffuso, con il 41,6%. In generale, osserva Martone, è - ancora una volta - un problema culturale. «Permane l’idea secondo cui se un dipendente lavora da casa non si riesce più a controllarlo, e lavora di meno. Si tratta, però, di un pregiudizio non giustificato dai fatti. Una ricerca che avevamo condotto con von Rundstedt sull’impatto dello smart working in Svizzera aveva evidenziato che la produttività del lavoro, a casa, non subiva alcun tipo di impatto. Il problema, semmai, era legato al fatto che, andando meno in ufficio, il dipendente si sentisse meno legato all’azienda».
Un altro limite del lavoro da casa, osserva il professore, riguarda poi la rottura di una routine consolidata. «Si rompe lo schema casa-lavoro, rendendo più labili i confini tra il tempo professionale e quello personale. Con il rischio di procrastinare le esigenze personali, innescando un meccanismo poco sano».
Età, attività e futuro
Tornando ancora ai dati, il telelavoro in Ticino risulta diffuso in maniera simile tra uomini (32,5%) e donne (34,8%), mentre per quanto riguarda l’età, appare particolarmente sfruttato tra i 30 e i 39 anni, e tra i 40 e i 49. «Fasce nelle quali il lavoro a domicilio può maggiormente favorire una miglior conciliazione tra vita professionale e familiare», scrive l’USTAT.
Interessante è poi osservare la diffusione dello smart working secondo la posizione occupata. Infatti, oltre la metà delle persone indipendenti o collaboratori familiari lavora da casa (51,5%), e anche tra i salariati con funzioni dirigenziali lo smart working è particolarmente diffuso (56%), mentre tra i dipendenti senza funzione quadro la percentuale scende al 35%. Come è ovvio, poi, il telelavoro è più frequente tra chi lavora nel campo dell’informazione e della comunicazione (66,1%), dell’istruzione (58,1%), delle attività finanziarie e assicurative (53,5%) e di quelle professionali scientifiche e tecniche (53,1%). È molto meno diffuso, comprensibilmente, nei servizi di alloggio e ristorazione (13,3%), nel settore delle costruzioni (19,2%), nei servizi di trasporto e magazzinaggio (21,7%) e nel campo della sanità e dell’assistenza sociale (22,1%).
Da qui ai prossimi anni, tuttavia, secondo Martone il fenomeno andrà a stabilizzarsi: «La forma più in uso e che probabilmente si imporrà è quella del ‘‘blended working’’, un modello di lavoro ibrido che combina l’attività da remoto e quella in presenza. Un approccio che permette alle aziende e ai dipendenti di sfruttare i vantaggi di entrambi i contesti. Uno studio americano aveva identificato due giorni a settimana di smart working come il punto di equilibrio, e non a caso, la percentuale del 40% di lavoro da casa è quanto propongono di solito le aziende ai collaboratori».

Ma anche lo «smart working» ha le sue regole
Lavorare da casa, però, non significa non avere alcuna regola. Un opuscolo pubblicato dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO) spiega quali disposizioni devono essere adottate dal datore di lavoro e dai collaboratori che lavorano a domicilio, tra strumenti e postazione di lavoro e organizzazione del tempo. Innanzitutto, in linea di massima, il datore di lavoro deve fornire al lavoratore i dispositivi e il materiale necessari per lo svolgimento delle attività professionali. Se invece, «d’intesa con il datore di lavoro, è il lavoratore stesso a metterli a disposizione per svolgere il proprio lavoro, dovrà essere adeguatamente indennizzato». Per quanto riguarda il tempo di lavoro, «indipendentemente dal luogo di lavoro, le regole concernenti il tempo di lavoro e di riposo restano invariate, anche se si rinuncia a registrare la durata del lavoro o si opta per la registrazione semplificata». Di conseguenza, «la settimana lavorativa del personale d’ufficio non può eccedere le 45 ore anche nel caso di telelavoro a domicilio». Non solo. «Il periodo di riposo quotidiano tra due giorni lavorativi deve essere di almeno 11 ore, con la possibilità di ridurlo a 8 una volta alla settimana, sempre che nell’arco di due settimane sia garantita la media delle 11 ore». In linea di massima, poi, non è ammesso lavorare di notte, la domenica o nei giorni festivi. «Qualora non si possa evitare, è necessaria l’autorizzazione dell’autorità competente, a meno che la legge non disponga altrimenti». Nel 2016, l’allora consigliere nazionale Thierry Burkart (PLR) ha depositato un’iniziativa parlamentare per chiedere condizioni più flessibili per il telelavoro. La proposta è stata accolta lo scorso settembre dalla Camera bassa ed è ora al vaglio della Commissione dell’economia e dei tributi del Consiglio degli Stati.
