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«Le fake news? Abituiamoci a pensare come scienziati»

L’avanzata della pseudoscienza e delle notizie false ci impone di evitare gli errori gli inganni e gli autoinganni di ragionamento – A colloquio con lo scrittore e divulgatore scientifico Massimo Polidoro
© Foto Cottonbro per Pexels.
Carlo Silini
15.01.2022 06:00

Perché a volte si dà più credito a un ciarlatano che a uno scienziato? Probabilmente perché è facile cadere in alcune trappole del pensiero che ci portano su strade sbagliate. Lo si può evitare? Certo. Magari cominciando a leggere l’ultimo saggio del noto divulgatore scientifico Massimo Polidoro: Pensa come unə scienziatə, edito da Piemme. (Si noti l’uso del simbolo «ə», che in linguistica è chiamato «scevà» o «schwa» ed è un modo per evitare il predominio maschile e favorire l’inclusività). L’abbiamo intervistato.

Perché questo libro, Massimo Polidoro?
«Stiamo vedendo da un paio d’anni (ma in realtà questa realtà era iniziata prima) un fenomeno che consiste nel fatto che la mentalità irrazionale e complottista prende una parte importante della comunicazione. Tutto questo, naturalmente, fa parte dell’uomo. In un certo senso siamo tutti complottisti...».

Perché?
«Perché una parte del nostro cervello va alla ricerca di connessioni, collegamenti; si è evoluto così. È uno strumento che ci ha premesso di evolvere. Ma nella continua ricerca di connessioni con quello che ci circonda, alla fine se ne trovano anche dove non ci sono, sono illusorie o immaginarie. Questo serve, dal punto di vista evolutivo, come rassicurazione. Se infatti noi riusciamo a trovare le cause di un qualcosa, siamo più tranquilli e se si tratta di qualcosa di pericoloso ci sentiamo al riparo».

E oggi cosa c’è di nuovo?
«C’è che abbiamo tra le mani uno strumento comunicativo nuovo, il web, che – a differenza di quelli precedenti: stampa, radio, tv... – può raggiungere qualunque persona in ogni parte del mondo. Ed è a disposizione di chiunque. Prima non potevi andare a delirare con le tue fantasie in televisione o sui giornali. Oggi, con internet, puoi farlo. Sui social puoi dire, scrivere, fare un video e trovare subito un seguito di persone che è d’accordo con te. Anche se dici una follia».

Per essere un pensatore libero, si sostiene, devi andare contro la comunicazione ufficiale. Ma questo non significa abbracciare un’altra forma di credenza, quella per cui basta dire il contrario di quanto si afferma in generale per credere di essere nel vero

Cosa comporta tutto questo?
«Non c’è più un dibattito tra persone competenti, ma una discussione in cui il cugino del mio amico che fa il meccanico e che è bravissimo a riparare le auto, pretende di saperne più di un virologo sul virus».

Lei distingue tra «pensatori liberi» e «pensatori critici»...
«Esatto. Molti sostengono che se tu segui i mezzi di comunicazione tradizionali, allora fai parte del gregge. Non sei un pensatore libero, ti lasci condizionare dal mainstream. Per essere un pensatore libero, si sostiene, devi andare contro la comunicazione ufficiale. Ma questo non significa essere pensatori liberi, bensì abbracciare un’altra forma di credenza, quella per cui basta dire il contrario di quanto si afferma in generale per credere di essere nel vero. Non è così. Non si tratta, quindi, di diventare pensatori liberi, ma pensatori critici, di avere gli strumenti per imparare a discernere se qualcosa è attendibile o no».

Il dubbio, quindi, è necessario.
«Sì, il pensatore critico dubita, si pone domande, si chiede se ce la stanno raccontando giusta. Ed è giusto porsi queste domande. Quando arrivano però delle risposte fondate, oggettive, verificabili, a quel punto il pensatore critico si dice che gli elementi sono convincenti, quindi questa cosa potrebbe essere vera. Il pensatore cosiddetto libero, invece, rifiuta qualunque tipo di prova che non assecondi i suoi pregiudizi o convinzioni».

Perché è importante capire l’evoluzione del cervello per non farsi ingannare?
«Se capisci come si è evoluto il cervello, capisci che funzioniamo tutti allo stesso modo. Per centinaia di migliaia di anni il cervello si è evoluto con l’unico obiettivo di sopravvivere in un ambiente ostile. Solamente negli ultimi diecimila anni, quando i nostri antenati si sono fermati e hanno smesso di essere dei cacciatori-raccoglitori iniziando a costruire le prime città, allora è nata l’esigenza di avere un linguaggio comune, una cultura comune, delle capacità di ragionamento, saper fare di conto, tenere memoria delle cose. È in questo periodo recentissimo, dal punto di vista della storia della nostra specie, che si sviluppano quelle capacità cognitive superiori, razionali, che ci permettono di valutare le cose con calma. Capacità che ci rendono gli uomini e le donne di oggi: cioè persone raziocinanti. Queste capacità sono un foglio sottilissimo che avvolge la superficie del cervello, sono i neuroni che sono arrivati per ultimi e rappresentano la corteccia cerebrale».

E quindi?
«E quindi, la parte più grossa del cervello, la più profonda, è quella che ci portiamo dietro da 300 mila anni: è istintiva, impulsiva, deve reagire in fretta perché se no rischia di farsi mangiare da un leone o di cadere nell’agguato dei nemici. Quella parte lì ci porta a reagire d’istinto anche quando vediamo un post su Facebook, o un video, o leggiamo un titolo che ci indigna. Dimenticando, magari, che quel video o quel titolo sono stati creati apposta per sollecitare la nostra parte emotiva e renderci meno critici e meno analitici».

Lei, infatti, suggerisce un certo scetticismo emotivo, soprattutto quando navighiamo nei social. Ma ci mette in guardia anche dal principio di autorità, il cosiddetto ipse dixit. In cosa consiste?
«L’ipse dixit (in italiano: l’ha detto lui) vuole essere un riferimento a un’autorità superiore e incontestabile: l’ha detto il professorone, il Nobel, eccetera... Ma nella scienza anche l’ultimo dei ricercatori che prende il più basso degli stipendi ha più ragione del premio Nobel se è in grado con i suoi esperimenti di dimostrare quello che afferma. Perché il premio Nobel che dice le sue cose ma non le dimostra è come il primo che passa per la strada. Certo, ha vinto il premio per qualcosa di importante, ma questo non gli dà automaticamente la patente di infallibilità. Purtroppo, nella storia ci sono tanti esempi di scienziati molto validi nel loro campo che però si sono lasciati andare a dichiarazioni sconsiderate».

Fondamentale, mi pare di capire, è il concetto di ripetibilità, vero?
«Esatto. Nella scienza chiunque può fare un’affermazione e dire che ha scoperto qualcosa. Poi però deve portare le prove di quello che dice. Può, ad esempio, spiegare quali esperimenti ha fatto per giungere alle sue conclusioni. Questi risultati vengono poi pubblicati sulle riviste scientifiche e diventano accessibili a tutta la comunità scientifica. Tutti i ricercatori in tutto il mondo possono leggere e verificare, mettendola alla prova, la solidità della tesi proposta. Se l’esperimento è ripetibile, cioè, se altri ricercatori in altre parti del mondo e in altri contesti e momenti, messi nelle medesime condizioni, riescono ad ottenere i tuoi stessi risultati, allora, probabilmente quella ricerca è vera. E più ricercatori ottengono quei risultati, più il grado di verosimiglianza è alto. Se invece nessuno riesce ad ottenere gli stessi risultati dei primi, allora probabilmente quella tesi non è valida».

Il premio Nobel che dice le sue cose ma non le dimostra è come il primo che passa per la strada. Certo, ha vinto il premio per qualcosa di importante, ma questo non gli dà automaticamente la patente di infallibilità

Per esempio?
«Per esempio, negli anni Ottanta dello scorso secolo c’era l’idea che l’acqua conservava il ricordo di sostanze con cui entrava in contatto. In questo modo si piegava l’omeopatia. Peccato che questi esperimenti riuscivano solamente in un unico laboratorio francese e nessun altro riusciva a ottenerli nel resto del mondo. Questo, alla fine, ha portato a due possibilità: o c’era qualche errore nel procedimento e quindi bisognava ristudiare il tutto, oppure qualcuno stava imbrogliando. Di questa commissione faceva parte il prestigiatore scettico James Randi che, grazie alle sue osservazioni, ha potuto verificare che c’era una ricercatrice che alterava i dati. L’inganno è stato scoperto proprio perché l’esperimento non era ripetibile».

Ci può spiegare alcune trappole mentali molto diffuse?
«Sì. Sono proprio quelle scorciatoie che il nostro cervello ha sviluppato perché permettono di raggiungere conclusioni e decisioni in tempi rapidi, ma ogni tanto ci traggono in inganno. C’è, per esempio, il cosiddetto “pregiudizio di conferma”, un meccanismo che ci porta a cercare prove che confermano quello in cui già crediamo. È un errore perché se cerchiamo prove che confermano qualcosa le troveremo senza alcuna fatica, tanto più oggi su internet. Se vogliamo cercare prove che il presidente USA Biden in realtà è Babbo Natale, iniziamo a trovarle, perché di sicuro qualcuno da qualche parte ha scritto di averlo visto vicino a una slitta e c’erano le renne. Con tanta fantasia si trovano prove per qualsiasi teoria. Ma se vogliamo imparare a ragionare in maniera critica non dobbiamo solo cercare prove di conferma, ma anche argomenti di smentita e valutare da che parte stanno le prove. Solo così mettiamo davvero alla prova la nostra opinione».

Lei parla anche dell’«effetto alone»: che cos’è?
«È un fenomeno che ci accompagna quando ci lasciamo suggestionare o incantare da una caratteristica di una persona, per esempio il fatto che sia di bell’aspetto. Automaticamente ci viene da pensare che questa persona sia simpatica e capace. A un colloquio di lavoro, purtroppo, tante volte l’aspetto fisico ha un ruolo determinante rispetto alle reali capacità del candidato. Insomma, estendiamo ad altre caratteristiche di una persona, quella che è una sua sola caratteristica, per quanto prevalente».

Un conto è dare una volta la notizia che ci sono i no-vax, ma non capisco che ogni giorno debba esserci una voce no-vax da contrapporre a quella del virologo che sa di cosa sta parlando

A proposito di inganni e autoinganni, ci racconta il cosiddetto paradosso della teiera celeste?
«Lo ha codificato il filosofo Bertrand Russell e consiste nel dichiarare che tra la Terra e Marte c’è una teiera di porcellana che orbita attorno al Sole, ma è talmente piccola da non potere essere rilevata dai telescopi: dunque, non si può dimostrare che non esista. E chi non ci crede ha chiaramente una mente chiusa e rifiuta a priori qualunque nuova ipotesi scientifica. Come fai allora a dimostrare che non è vero? Ma qui c’è una fallacia logica. Siccome non esistono prove che smentiscono quello che dico, allora deve essere vero. È un po’ il ragionamento di tutti quelli che sostengono le teorie del complotto. Se tu non gli dimostri che non è vero, allora deve essere vero. Invece è chi fa l’affermazione che deve portare le prove che la sua affermazione è giusta, non il contrario. È quello che si chiama l’onere della prova!».

E l’onere della prova, in tempo di pandemia, a chi tocca? Perché è noto che esiste una certa percentuale di scienziati, minoritaria, va detto, che contesta, per esempio, il vaccino.
«Stiamo però parlando di un numero del tutto risibile di scienziati che hanno abbandonato quella che è la loro mentalità scientifica che avevano studiato all’università. Hanno deciso di abbracciare la mentalità complottista per varie ragioni».

Quali?
«Per esempio perché è redditizio. Oppure perché li fa sentire speciali o li rende paladini di un movimento. Trovano una rivalsa per altri aspetti della loro vita. Ma di sicuro non hanno prove a favore delle loro teorie. Lo ripeto: zero prove. Per cui, nella comunità scientifica, sono del tutto insignificanti. Diventano significativi, però, perché la televisione, i media e i social media danno un megafono a queste persone. Ma è come dare un megafono in mano a chi dice che la Terra è piatta. E purtroppo sta succedendo anche questo».

Perciò lei condivide l’opzione Mentana, il giornalista che non dà voce ai no-vax nei suoi TG.
«Sì, perché un conto è dare una volta la notizia che ci sono i no-vax, ma non capisco che ogni giorno debba esserci una voce no-vax da contrapporre a quella del virologo che sa di cosa sta parlando. Il no-vax, invece, dà aria a un’ideologia basata su una convinzione personale, ma certo non su evidenze scientifiche. Se il discorso è quello di fare buona informazione è inutile dare loro spazio».