Il caso

Le Falkland, il «blue hole» e quella pesca non monitorata

Le acque attorno all'arcipelago, sprovviste di una regolamentazione, sono sempre più popolate da navi straniere, che minacciano le specie ittiche, ma anche l'ambiente
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Red. Online
26.02.2024 13:30

C'è un arcipelago, nell'oceano Atlantico meridionale, che ancora oggi è considerato uno dei luoghi più remoti di tutto il pianeta. Raggiungerlo non è semplice: i collegamenti aerei sono pochi, pochissimi. E non sempre aperti ai passeggeri civili. Di più, la storia di questo luogo, è intricata. Contestata, soprattutto. Da una parte, queste isole vengono considerate un territorio d'oltremare del Regno Unito. Dall'altra, però, l'Argentina, da tempo, ne rivendica l'appartenenza. L'avrete capito: parliamo delle isole Falkland. O Malvine, come vengono chiamate in spagnolo, dall'Argentina e da tutti i Paesi ispanofoni. Un posto lontano, lontanissimo, vicino all'Antartide, che sembra quasi appartenere a un altro pianeta. Anche se in realtà, le diatribe che ruotano attorno a questo arcipelago potrebbero avere conseguenze anche per il resto del mondo. Ma per quale motivo?

Trattandosi di un arcipelago nell'Atlantico, è facile intuire che la pesca sia una delle principali attività delle Falkland. Ciò che però non tutti sanno, è che la portata della pesca non regolamentata nella regione ha raggiunto livelli allarmanti, nella zona conosciuta con il nome «Blue Hole». Buco blu. Un tratto dell'oceano Atlantico meridionale, situato a circa 320 chilometri dalle coste argentine, a nord delle isole Falkland. La sua particolarità, infatti, è quella di essere uno dei pochi punti non coperto da un accordo sulla pesca, a causa delle contestazioni sul territorio tra Argentina e Gran Bretagna, iniziate dalla guerra del 1982. 

Una questione geopolitica. Da cui, insomma, nascono tutti i problemi. Secondo l'appello di politici e ambientalisti, le conseguenze più gravi riguarderebbero le popolazioni ittiche presenti e la ricca biodiversità nella zona. Non essendoci alcuna regolamentazione, tutti, potenzialmente, possono infatti pescare in quell'area, senza essere supervisionati. Una pratica, questa, che, negli ultimi tempi, è particolarmente aumentata. Stando ai dati di monitoraggio delle isole Falkland, dal passaggio di sole 80 navi a novembre, alla fine di gennaio nel «buco blu» ne sono state registrate più di 400. La maggior parte di queste provenienti dalla Cina.

Ma non è tutto. Secondo il governo delle isole, una volta giunte nel «blue hole», queste imbarcazioni sono solite spegnere il localizzatore, così da non venire identificate. Rendendo, va da sé, impossibile monitorare la loro attività di pesca. Pesca che, in quest'area, è particolarmente redditizia. Il «buco blu», infatti, è caratterizzato da fondali poco profondi, popolati da diverse specie animali, tra cui, soprattutto, totani e calamari. Pesci che ora, tuttavia, potrebbero essere severamente minacciati. Stando a quanto rivela Janet Robertson, CEO di Consolidated Fishers, una società con sede nelle Falkland, il numero «sempre crescente» di flotte cinesi sta causando «seri rischi» per la sostenibilità della popolazione di calamari. Non solo. Secondo il governo delle isole, si stima che circa la metà dei calamari che vengono consumati in Spagna provengano dal «blue hole». Anche se non si direbbe, quindi, anche il pesce che arriva a tavola in Europa proviene molto spesso dalle acque remote attorno alle Falkland. 

Ma non finisce qui. Sì, perché se da un lato la pesca non monitorata può essere un rischio per le specie ittiche, dall'altro i pericoli si allargano all'intero ecosistema. Secondo Hernán Pérez Orsi, di Greenpeace Argentina, il «buco blu» è anche «un punto chiave per la biodiversità di tutto il mondo». Aree di questo tipo, nel resto del mondo, vengono infatti monitorate attentamente, proprio per preservare gli ecosistemi. In questo caso, però, l'assenza di una regolamentazione, a lungo andare, sta creando pericoli sempre più concreti. E sia il governo delle Falkland, che quello argentino, ne sono perfettamente consapevoli. Eppure, nonostante la situazione sia stata denunciata più e più volte da ambedue le parti, non è ancora stato trovato un accordo condiviso che possa stabilire un controllo in quella porzione di oceano. Il cui ecosistema marino, ora, viene, mese dopo mese, sempre più deturpato.