Le turbolenze nell’Africa centrosettentrionale rilanciano l’allarme migranti

Dal Sudan, alla Libia e poi su fino all’Algeria è tutto un susseguirsi di proteste di piazza o, nel caso libico, di un vero e proprio regolamento di conti tra opposte fazioni. Una parte del continente africano ritorna incandescente, tanto che Raffaele Masto, giornalista e scrittore, nonché inviato di Radio Popolare e della rivista «Africa» (per la quale cura il blog di analisi «Buongiorno Africa»), parla di un ritorno di fiamma della Primavera araba. Lo abbiamo sentito al suo rientro dal Sudan, espulso dai militari dopo essere stato sorpreso a seguire una delle marce di protesta della popolazione.
In Sudan i manifestanti non solo hanno ottenuto la destituzione del presidente-dittatore Omar al-Bashir, ma anche l’allontanamento dell’ex ministro della Difesa e del capo dei servizi segreti. Com’è stato possibile?
«È stato possibile probabilmente per due fattori. Il primo è che i manifestanti sono in piazza dallo scorso mese di dicembre, per cui sono motivati, determinati e vessati da una crisi economica abbastanza forte. L’aumento del prezzo del pane e di quello della benzina ha messo in ginocchio molte famiglie e molti lavoratori che hanno bisogno della benzina per lavorare. L’altro motivo è che all’interno del regime Omar al-Bashir era diventato un personaggio ingombrante, in quanto ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e genocidio nel Darfur. Quindi per i vertici militari tornava utile toglierlo dal potere per ottenere una sorte di riabilitazione internazionale dopo le sanzioni americane. Il vero successo dei dimostranti si è avuto dopo la destituzione di al-Bashir, costringendo il primo vicepresidente e ministro della Difesa ad andarsene. Ovviamente la partita non è finita. Ora i dimostranti vogliono un Governo di civili, ma i militari non possono cedere ora. Vogliono preparare una transizione che porti a un Governo di civili che sia un prodotto dello stesso regime militare».
Questa situazione di instabilità rischia di incrementare il flusso di migranti dal Sudan verso l’Europa?
«Il Sudan più che un luogo di fuga attualmente è un luogo di passaggio. Le due direttrici della rotta mediterranea sono infatti la Nigeria, da dove arriva una buona parte di migranti diretti in Europa, e il Sudan. Certo che se in Sudan attenuasse la grave crisi economica e si aprisse la prospettiva di una svolta democratica, si ridurrebbero i motivi per cui molti sudanesi fuggono all’estero. Comunque non enfatizzerei troppo il fatto che la crisi in Sudan possa produrre più migranti di quanti ce ne sono oggi. Mentre per la Libia vi è questo rischio».
A proposito della Libia, come valuta la posizione assunta dall’UE?
«L’UE è in difficoltà di fronte alla crisi libica, in quanto è divisa. Vi è infatti una soluzione italiana a questa crisi, ma vi anche una soluzione francese. Si tratta di due soluzioni incompatibili. In gioco vi è la questione petrolio e per l’Italia vi è anche la questione migranti. Roma avrebbe infatti di un Paese africano dove ricacciare i migranti e convincere un regime fornendo dei finanziamenti. L’Italia da questo punto di vista finora aveva la Libia, ma oggi questo Paese non può più svolgere questo ruolo».
In gioco però non vi sono solo gli interessi di Roma e Parigi, giusto?
«La guerra che si combatte in Libia non è dei libici, oltre a Francia e Italia coinvolge ma rispecchia anche tutte le divisioni geopolitiche dei nostri tempi. Dietro Haftar c’è l’Egitto, la Russia l’Arabia Saudita, la Russia. Mentre dietro Serraj oltre all’Italia vi è anche l’ONU, ma con un Consiglio di Sicurezza diviso, il Qatar e la Turchia. Con Arabia Saudita e Qatar che si trovano su fronti opposti soprattutto per i contrastanti interessi economici».
La responsabilità di questo nuovo conflitto in Libia è ben chiara. Come mai il Segretario generale dell’ONU non ha condannato apertamente l’aggressione lanciata dal generale Haftar?
«Guterres lo potrebbe dire, però non lo fa perché sa di essere l’espressione o il front man di un’organizzazione internazionale che ha delle divisioni interne. A volte è accaduto che dei Segretari generali dell’ONU abbiano preso delle posizioni autonome molto ferme, ma poi quelle posizioni non portano a nulla. Per l’ONU ci vuole una risoluzione che deve poi essere votata dal Consiglio di Sicurezza che però come abbiamo visto è diviso al suo interno. L’inviato speciale dell’ONU Salamé aveva cercato di trovare una soluzione di compromesso che il generale Haftar ha fatto saltare, buttando per aria il tavolo delle trattative e oggi siamo in questa grave situazione. Con Tripoli assediata e la Libia con i suoi 800 mila potenziali migranti che rischia di diventare un gigantesco problema umanitario alle porte dell’Europa, e in particolare dell’Italia».
Cosa ci può dire invece degli attori internazionali che appoggiano Haftar?
«La Russia vuole ritagliarsi una posizione nel Mediterraneo, l’Egitto non vuole assolutamente alla sua frontiera un presidente che Il Cairo ritiene debole e che potrebbe quindi lasciare aperta la porta agli islamisti e la Francia vuole una diversa ripartizione dei pozzi petroliferi. Pertanto vediamo che sono soprattutto gli interessi dei singoli Stati a giustificare l’appoggio fornito al generale Haftar. Non dimentichiamo che negli equilibri nel Mediterraneo oggi entra anche la questione algerina, con le proteste di piazza che hanno costretto Buteflika a rinunciare al suo quinto mandato. Anche in questo Paese bisogna vedere cosa accadrà. Stiamo rimettendo a posto gli equilibri di tutto il Maghreb. Quello che era iniziato nel 2011 con le rivolte della cosiddetta Primavera araba non si è concluso, anzi è ancora in corso».