L'Egitto sostiene di aver ucciso i killer di Regeni

In casa loro "ritrovato il portafoglio" del ricercatore, e spunta una foto con i documenti di identità, carte di credito, effetti personali - Molti i dubbi degli inquirenti italiani
Ats
25.03.2016 10:17

IL CAIRO - La forze di sicurezza egiziane hanno ucciso al Cairo cinque criminali considerati "sequestratori di stranieri" e che sono sospettati di essere legati alla tortura a morte del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni.

Il ministero dell'Interno egiziano ha diffuso ieri sera una nota per annunciare che le forze di sicurezza hanno ucciso alla periferia est del Cairo i componenti di una banda di criminali che, camuffati da poliziotti, "sequestravano" stranieri per derubarli. "Al momento dell'arresto", avvenuto nella zona della "New Cairo-5th Settlement", c'è stato "uno scontro a fuoco e tutti i componenti della banda sono rimasti uccisi".

Il ministero ha inoltre reso noto le generalità dei componenti della banda di malviventi che sarebbe implicata nell'omicidio di Giulio Regeni. "La banda è formata da Tarek Saad Abdel Fatah 52 anni, che abitava a Sharqiyya" (governatorato del Basso Egitto) "e in un altro luogo di residenza a Qalyubiyya" (sempre nel Delta del Nilo), "accusato in 24 procedimenti diversi e condannato a quattro anni di reclusione; suo figlio Saad Tarek Saad, 26 anni; Moustafa Bakr Awad, 60 anni, accusato in 20 procedimenti; Salah Ali Sayed, 40 anni, sotto accusa in 11 processi".

Nel minibus colpito nello scontro con la polizia al Cairo, "i servizi di sicurezza hanno rinvenuto il corpo di una persona sconosciuta sulla trentina uccisa da un colpo di arma da fuoco", si afferma nella nota aggiungendo che "sono in corso sforzi per la sua identificazione".

"Il passaporto di Giulio Regeni", assieme ad altri suoi documenti, è stato rinvenuto nell'appartamento di una sorella di un componente della banda sgominata oggi: precisa il ministero dell'Interno egiziano in un comunicato diffuso dall'agenzia ufficiale Mena. La nota riferisce che "i servizi di sicurezza hanno trovato nell'appartamento un 'handbag' rosso sul quale è stampata la bandiera italiana e all'interno c'è un portadocumenti di colore marrone nel quale si trova il passaporto recante il nome di Giulio Regeni, nato nel 1988, il suo documento di riconoscimento (ID) dell'università americana con la sua foto sulla quale c'è scritto in lingua inglese 'assistente ricercatore', il suo documento di Cambridge, la sua carta" di credito "Visa e due telefoni portatili".

"La residenza, nel governatorato di Qalyubiyya" nel delta del Nilo, a nord del Cairo, "della sorella del principale accusato, 34 anni, è stata presa di mira perché le indagini hanno dimostrato che lui andava da lei di tanto in tanto", si legge nel comunicato. La donna, viene aggiunto, "conosceva le attività criminali di suo fratello che nascondeva presso di lei parte della refurtiva. Lei si trovava in compagnia della sposa, 48 anni, dell'accusato numero uno". Quest'ultima "ha affermato che l'hand bag appartiene a suo marito Tarek e che lei non ha null'altro", si riferisce ancora nel comunicato del dicastero che aggiunge: "Le donne hanno confessato che le cose rinvenute sono il frutto di attività criminali del principale accusato".

La banda, secondo il ministero dell'interno egiziano implicata nell'omicidio di Giulio Regeni "ha perpetrato nove rapine a Madinat an-Nasr e New Cairo", due quartieri dell'est della capitale egiziana.

Sul "minibus munito di tendine" al centro dello scontro a fuoco nell'est del Cairo scoppiato quando i malviventi "hanno visto le forze di polizia", sono stati rinvenuti "un'arma automatica, un revolver, due carte d'identità militari false", "un detonatore elettrico e quattro apparecchi mobili riguardanti la banda".

Si è appreso inoltre che gli investigatori italiani in missione al Cairo sono stati informati dalla polizia egiziana sull'uccisione dei cinque malviventi. In ambienti vicini agli inquirenti italiani la pista della rapina peraltro era stata scartata già nelle prime fasi dell'indagine. Un logico esame degli elementi finora emersi continua a far sospettare che il martirio di Regeni sia stato perpetrato da elementi - esterni o interni agli apparati egiziani - intenzionati a danneggiare le relazioni fra Egitto ed Italia o chi le difende.

Molti i dubbi per gli inquirenti italiani, il caso non è affatto chiuso

"Il caso non è affatto chiuso. Non c'è alcun elemento certo che confermi che siano stati loro". Investigatori ed inquirenti italiani impegnati nell'inchiesta sulla morte del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni sollevano diversi dubbi sulla 'svolta' arrivata dall'Egitto.

Ricordano che nonostante siano passati due mesi dalla scomparsa del ricercatore, le autorità italiane sono ancora in attesa di ricevere dal Cairo alcuni documenti e atti dell'inchiesta egiziana, ritenuti fondamentali.

Sono almeno tre le incongruenze nella ricostruzione del Cairo, secondo inquirenti ed investigatori. Il primo dubbio è legato proprio al ritrovamento dei documenti di Regeni: non è credibile, sottolineano fonti qualificate, che una banda di sequestratori e rapinatori abbia conservato per mesi passaporto e telefoni, con il rischio concreto di essere scoperti. Chiunque se ne sarebbe liberato all'istante. Il sospetto, dunque, è che quei documenti siano stati conservati da qualcun altro per poi farli saltare fuori al momento opportuno.

Un altro punto che lascia molti dubbi è legato alle sevizie riscontrate sul corpo di Giulio e confermate anche dall'autopsia egiziana consegnata agli inquirenti italiani: perché una banda che aveva come unico obiettivo quello di rapinare Regeni lo avrebbe torturato per almeno una settimana? Così come non è credibile, secondo le nostre autorità, la vicenda del conflitto a fuoco in cui sono morti tutti coloro che in qualche modo avrebbero potuto fornire informazioni utili.

Allo stato, inoltre, non c'è una sola prova accettabile dal punto di vista processuale che consenta ai nostri investigatori ed inquirenti di avere elementi che riconducano l'omicidio del ricercatore ai rapinatori uccisi ieri.

"Dobbiamo continuare a scavare seguendo le nostre piste per trovare prove certe e fugare i dubbi" dicono le fonti, sottolineando che ad oggi l'Egitto non ha ancora risposto a due richieste ritenute fondamentali: la consegna di tutte le immagini delle telecamere della zona dove abitava Giulio e delle due stazioni della metropolitana che avrebbe dovuto utilizzare la sera della scomparsa - che gli egiziani dicono essere state cancellate o non utili ma che i nostri investigatori vogliono comunque visionare - e la consegna dei tabulati con l'elenco dei telefoni che il 25 gennaio hanno agganciato la cella che copre la zona dove abitava il ricercatore e di quelli contenenti i cellulari che il 3 febbraio hanno impegnato la cella dove è stato ritrovato il cadavere di Giulio.

Sorella e moglie del capo della banda di criminali indicata dalle autorità egiziane come responsabile della tortura a morte del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni hanno sostenuto, in una deposizione, che il giovane ricercatore friulano è stato ucciso perché resisteva alla rapina: lo ha riferito all'ANSA una fonte della Procura generale egiziana.

Le due donne "hanno confermato che l'accusato ha effettivamente commesso questo atto ma non per ucciderlo, bensì per derubarlo", ha sostenuto la fonte. "La vittima però ha resistito, cosa che ha spinto l'accusato e i suoi compari ad aggredirlo: circostanza che ha causato il decesso", hanno aggiunto, riferendosi al principale sospettato, Tarek Saad Abdel Fatah, rimasto ucciso assieme ad altri quattro componenti della banda nello scontro a fuoco di ieri.

Come segnalato nel comunicato del ministero dell'Interno diffuso ieri sera, le due donne sono Rasha Saad Abdel Fatah, sorella di Tarek, e la sua consorte, Mabrouka Ahmed Afifi. Secondo la fonte, la deposizione è stata fatta alla Procura di Shubra El-Khema, città di governatorato a nord del Cairo ma che fa parte dell'agglomerato urbano della capitale egiziana.

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