«L'emergenza COVID è finita ma ci sono stati alcuni errori di gestione»

Mentre a inizio maggio l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha annunciato la fine dell’emergenza pandemica, la Svizzera sta lavorando a un nuovo piano pandemico nazionale «che avrà orizzonti più ampi di quello precedente al Covid e soprattutto cercherà di integrare gli aspetti pratici, le sfide e i problemi riscontrati durante la pandemia». Ad anticipare l’esistenza di un aggiornamento in corso è Christian Garzoni, infettivologo, direttore sanitario della Clinica Moncucco di Lugano e membro della Commissione federale per la preparazione e la risposta alle pandemie. Commissione che si sta occupando proprio di prestare consulenza all’Ufficio federale della sanità pubblica per l’aggiornamento del piano pandemico.
Il nuovo piano avrà dunque orizzonti più ampi. Ma cosa significa?
«La Commissione di cui faccio parte si è chinata sin da subito sulla preparazione a nuove pandemie, perché è risultato abbastanza chiaro a tutti che se una volta le pandemie erano sinonimo di virus influenzali oggi è sinonimo anche di altri virus respiratori, come il Covid, ma anche di altri patogeni».
Intanto l’OMS ha annunciato conclusa l’emergenza. Condivide?
«Sì, l’OMS non dice che il Covid non esiste più ma che siamo usciti da una situazione di emergenza sanitaria con tutte le conseguenze del caso, come di ospedali pieni e di assenza di immunità della popolazione. Oggi siamo insomma in una situazione di convivenza con il coronavirus, così come conviviamo con altri virus che possono essere pericolosi, ad esempio quello dell’influenza».
Ma perché l’emergenza è finita?
«Perché i fatti e i numeri permettono di avere questa visione. La popolazione, non solo a livello svizzero ma anche nel mondo ha sviluppato un’immunità contro il virus, vuoi per i vaccini, vuoi perché si è ammalata o per tutte e due le cose insieme. La differenza fondamentale di oggi rispetto al passato è la probabilità molto minore di sviluppare una patologia grave una volta che ci si ammala di coronavirus. Questo non significa che non ci saranno più persone che faranno delle forme gravi o decessi. Vi saranno ancora, ma saranno rari e tipicamente saranno persone che hanno perso l’immunità o non l’hanno mai acquisita a causa di malattie del sistema immunitario o di farmaci».
È in discorso di probabilità, quindi.
«È un discorso basato su dati e numeri che ci fanno pensare che per l’individuo medio e per la popolazione mondiale il Covid non dovrebbe più presentare un problema grave, e una situazione globale fortunatamente molto diversa dal 2020-2022».


Si può abbassare la guardia, insomma.
«La guardia è stata sempre adattata alla situazione strada facendo. Il fatto che quest’estate sarà un’estate completamente libera è un esempio di come la guardia è stata abbassata e di molto, direi «tolta del tutto». È chiaro comunque che delle forme di monitoraggio resteranno necessarie, per il Covid, ma anche per altri patogeni, da parte delle varie agenzie di salute pubblica, di sanità e da parte degli esperti».
E per il prossimo inverno invece cosa dovremmo aspettarci?
«È poco probabile che avremo un problema maggiore il prossimo inverno, inteso come numeri elevati di decessi o sovraccarico massiccio degli ospedali. Ma attenzione perché le previsioni possono essere difficili e il Covid sarà presente. È probabile che tenderà a circolare di più in inverno. Nessuno sa quanti casi avremo, sicuramente però non avremo più l’emergenza del passato. Speriamo poi di non avere il problema di quest’anno, con altri virus respiratori come l’influenza o l’RSV che si sono sommanti al Covid, creando non pochi problemi logistici nelle strutture sanitarie».
Non potrebbe circolare una nuova variante?
«Fare delle previsioni è molto difficile e chi le fa di solito sbaglia. Detto ciò, il virus potrà mutare ma difficilmente potrà cambiare in maniera sostanziale. Ricordiamoci che quando è apparso era un virus completamente nuovo e le varianti che sono via via arrivate erano comunque degli adattamenti al virus, quindi avevano almeno parzialmente la stessa base».
Quali sono le caratteristiche che rendono una mutazione pericolosa?
«Sono due. O il virus diventa più aggressivo e virulento oppure muta in maniera importante e il sistema immunitario non lo riconosce più. Oggi abbiamo praticamente tutti un’immunità in parte basata sul primo virus, quello di Wuhan, e in parte sulle varianti successive data dai vaccini e da frequenti malattie. Abbiamo visto che con il tempo mutazioni maggiori sono diventate più improbabili e se il virus dovesse mutare senza riuscire a cambiare molto, difficilmente arriverà un Covid altamente virulento, perché la «struttura» del Covid adesso il sistema immunitario ha imparato a conoscerla.
Quindi?
«Immaginare che arrivi una nuova variante completamente sconosciuta al sistema immunitario è comunque difficile, ma non impossibile. E non dimentichiamoci per il futuro che i coronavirus sono una grande famiglia e eventi come quello del 2020 con la «nascita» del Covid resteranno sempre possibili».


Per 3 anni la pandemia ha messo a soqquadro il mondo. Cosa abbiamo imparato da questa esperienza?
«Abbiamo imparato che siamo esseri biologici che vivono in un ecosistema dove le pandemie sono una realtà e che nonostante la tecnologia e la medicina, le pandemie restano un potenziale pericolo e probabilmente questo pericolo negli anni è stato lentamente sottovalutato. Ma non solo».
Prego.
«Abbiamo dovuto imparare a curare le persone in emergenza dove l’obiettivo era salvare delle vite. Non vi erano risorse per una medicina «ottimizzata» e dove si «curano i dettagli»: le energie dovevano essere messe nel salvare la vita delle persone. Abbiamo dovuto «rinchiuderci in casa» rinunciando a delle libertà essenziali come quella di incontro e spostamento, per il bene «collettivo e della società», onde bloccare l’onda inarrestabile del virus. Abbiamo imparato che la comunicazione è estremamente importante, che una pandemia la si vince se tutti corrono nella stessa direzione e se si riesce a informare la popolazione correttamente. Abbiamo imparato a usare nuove tecniche per i vaccini in tempi record che aprono prospettive per il futuro. Abbiamo imparato che il problema delle malattie infettive non conosce i confini nazionali e ci sono cose che vanno gestite a livello internazionale. E nel tempo abbiamo imparato che il Covid ha purtroppo fatto danni psicologici maggiori dovuti all’isolamento e al confinamento, dai quali la società sta facendo ancora fatica a uscire».
Quali errori sono stati fatti?
«Il più grande errore credo è stato quello di sottovalutare la preparazione a un evento di questo genere. La reattività a questo problema è stata insufficiente a più livelli. A livello nazionale, internazionale e politico. Sin dall’inizio, vi erano esperti che sapevano come agire, però le reazione degli Stati e della politica è stata spesso o ritardata, o insufficiente, o paradossalmente eccessiva e ingiustificata, causando poi tutti i problemi psicologici e sociali di cui abbiamo detto sopra. Anche la comunicazione è stata spesso difficile. In questo senso ritengo che anche la comunicazione del Consiglio federale di sicuro non è sempre stata ottimale, ma era una situazione difficile per tutti».