Leopardi e la scala di Wittgenstein

Giunto a un terzo della lettura, cominciavo ad avvertire un certo fastidio, perso nella disordinata trama dell'ultimo libro sulla vita di Giacomo Leopardi – scritto da Pietro Citati, per Mondadori. A pagina 166, però, questa strenna natalizia da intellettuali mi ha sorpreso con uno di quei colpi che, fossimo allo stadio, varrebbero il prezzo del biglietto. L'argomento del passaggio in questione, nientepopodimeno, sono la fine e il fine ultimi della filosofia. Ma prima di avanzare oltre, poesia.
Sur un mince cristal, l'hiver conduit leurs pas:/ le précipice est sous la glace,/ telle est de nos plaisirs la fragile surface. / Glissez, mortels, n'appuyez pas.
Si tratta di una quartina settecentesca che, spiega Citati, il ventiduenne Leopardi iscrisse alla fine del 1820 nel suo diario, lo Zibaldone di pensieri; un inserto lirico, per mezzo del quale il genio di Recanati «con tocco tenero e frivolo ci introduce nel cuore dei suoi problemi». Sarebbe a dire, precisa il biografo, che «noi uomini dobbiamo glisser, scivolare, non posare e premere il piede sulla lieve superficie di ghiaccio che ci circonda. Il culmine del sapere consiste nel conoscere l'inutilità della ragione e della filosofia».
Stavo leggendo sotto il piumone, già in stato di incoscienza avanzata, quando questa frase esplosiva – gettata lì con noncuranza, nel mezzo del discorso, come una mina antiuomo nella quiete di una risaia cambogiana – ha ridestato la mia piena attenzione. Ecco quel che segue. Leopardi afferma che «Le grandi scoperte, per lo più, non sono altro che scoperte di grandi errori»; in linea con altri autori a lui precedenti – ci ricorda il biografo – il recanatese riteneva dunque che la ragione umana fosse destinata soprattutto a svelare verità negative. «Quella di negare e distruggere è un'arte difficilissima», prosegue Pietro Citati: « I veri geni non erano dunque i tranquilli filosofi antichi, con le loro indimostrabili architetture di pensieri, ma i filosofi e gli scienziati moderni, i grandi distruttori, ai quali Leopardi attribuiva una violenza di nichilisti».
È a questo punto che l'analisi giunge al magistrale punto di svolta e disvelamento. «Solo che, per Leopardi, distruggere era una via di passaggio. La sua meta era un'altra», ovvero «servirsi della filosofia moderna, dell'analitica, acutissima, negativa ragione moderna, per ritrovare l'occhio originario dell'uomo: distruggere per recuperare ciò che si vede al primo sguardo e si sente al primo tocco della mano». In altre parole, ci dice Citati, «Non c'è bisogno di alzare nessun velo. La natura [e con essa la verità] sta lì, tutta spiegata davanti a noi, "nuda e aperta": è ciò che i nostri occhi vedono, i nostri sensi sentono; e che i bambini avvertono senza che qualcuno glielo insegni».
Questo percorso di pensiero – il cui approdo brilla come una mattina d'inverno – si collega per me con il punto d'impatto di un'altra gigantesca traiettoria filosofica, tracciata un secolo dopo Leopardi. Parlando del sistema di pensiero costruito nel suo Tractatus logico-philosophicus – alla proposizione 6.54 – Ludwig Wittgenstein scrive infatti che i suoi ragionamenti sono chiarificatori, soltanto quando chi li ha capiti «li riconosce come privi di senso, dopo esservi salito attraverso, sopra e oltre». Poiché il lettore avveduto della filosofia, non cessa di avvertirci Wittgenstein, alla fine del suo percorso «deve, per così dire, buttare via la scala sulla quale è salito. Deve sormontare il pensiero, per vedere il Mondo correttamente».