«L’epopea americana come la vissero i nativi»

Ci voleva un accademico svizzero ( «di origini onsernonesi», come ci tiene a precisare) per confezionare quella che da più parti viene salutata come la miglior storia dei nativi nordamericani oggi disiponibile sul mercato. Non a caso ecco che «Mondi perduti» di Aram Mattioli è già stato tradotto in italiano per i prestigiosi tipi di Einaudi. Ne parliamo con l’autore.
Professor Mattioli, perché anche da un punto di vista storiografico non possiamo ritenerci soddisfatti di come la questione dei nativi nordamericani è stata per troppo tempo studiata e raccontata?
«Fino a pochi decenni fa la storia della “Conquista del West” ci è stata raccontata unicamente dalla prospettiva dei conquistatori bianchi. In questa narrazione l’ingiustizia commessa nei confronti delle nazioni indigene nella maggior parte dei casi è stata completamente rimossa oppure è stata addolcita a vantaggio del perpetuarsi dell’ideologia del “destino manifesto”. Non si può tuttavia evitare di riconoscere amaramente che gli Stati Uniti d’America si svilupparono sulle tombe di centinaia di migliaia di indiani. In Mondi perduti mi sono riproposto di ricordare le oscure radici della società statunitense e di raccontare quello scontro di culture anche dalla prospettiva dei nativi americani, per quanto sia difficile farlo puntualmente caso per caso, dal momento che gli indiani ci hanno lasciato soltanto pochi documenti storici in senso tradizionale».
Pur non mancando di evocarli più volte, lei sceglie volutamente di non considerare quello degli indiani d’America con i termini di «genocidio» o «sterminio pianificato»: per quali ragioni? E se non fu un genocidio, di che cosa si trattò allora?
«Sì, mi sta molto a cuore spiegare nella maniera più differenziata possibile la rimozione, la sottomissione coloniale e la decimazione dei primi popoli e anche la catastrofe demografica che hanno subito. Per questo una tesi generalizzata del genocidio è solo di ostacolo. Non c’è mai stata una “Conferenza del Wannsee” americana in cui l’annientamento di tutti i nativi americani sia stato pianificato a tavolino da parte di un Governo statunitense. Nelle zone di frontiera la violenza è potuta dilagare così senza limiti perché là lo Stato alle origini era molto fragile. Malgrado ciò sulla frontiera ovviamente sono accaduti di continuo massacri brutali che si possono senz’altro considerare come genocidi circoscritti a livello locale. In California durante la febbre dell’oro o nelle grandi pianure del nord ad esempio».
Quanto è difficile per uno studioso che vuole affrontare la storia americana anche dal punto di vista dei «nativi» rimanere in equilibrio tra la comprensione empatica per i popoli annientati e la sobrietà dell’analisi scientifica? E quanto rimane ancora da fare a proposito di questo impari confronto per arrivare ad una comprensione il più possibile globale degli eventi?
«Questa è in effetti una sfida molto difficile, siccome il ruolo dell’aggressore e quello della vittima sembrano definiti in maniera così chiara. Se però ci si confronta intensamente con la verità storica, diventa presto evidente che non c’erano solo coloni assassini e soldati pronti a tutto, ma anche guerrieri indiani che si sono difesi con grande crudeltà contro la loro rimozione e l’esproprio da parte degli invasori bianchi. La situazione alla frontiera era caratterizzata da spaventose spirali di violenza».
Raccontando e studiando quella che per loro fu una tragedia immane, che idea si è fatto della natura e dell’indole dei popoli nativi americani e perché non possiamo non provare ammirazione e rispetto per il semplice fatto che siano riusciti a sopravvivere, anche culturalmente, sino ad oggi?
«La consapevolezza principale per me è stata che i nativi americani sono persone come noi, malgrado le loro diverse matrici culturali, con pregi e difetti come noi. Il fatto che nonostante tutte le avversità, tra cui dal 1880 anche il tentativo di sistematico annientamento culturale (etnocidio) da parte delle autorità statunitensi, mi induce già ammirazione e profondo rispetto».
In che modo l’analisi di questa sanguinosa epopea getta una luce diversa sulla genesi degli Stati Uniti e quanto secondo lei la grande nazione americana è in qualche modo debitrice nei confronti di questi popoli «sconfitti» ma mai «vinti»?
«La maggior parte dei nativi americani non hanno mai vissuto gli USA nei primi 120 anni della loro esistenza come una terra promessa di libertà e democrazia, bensì come “una società che soppianta” (come ha scritto in un bel saggio lo storico David Day) e un regime di soppressione coloniale, che tra loro produsse quasi senza eccezione degli sconfitti e dal quale troppi finirono fisicamente divorati. In generale i primi popoli hanno però dimostrato una forza di resistenza sorprendente in condizioni difficilissime e sono sempre stati qualcosa di più di vittime inermi che subivano solo gli orrori dell’invasione europea della loro terra».
A pochi mesi dalla pubblicazione in tedesco questo saggio, a testimonianza del suo valore scientifico, è già uscito anche in italiano: che idea se ne è fatto e a quali progetti sta lavorando?
«Nella mia vita, da studioso, mi sono sempre particolarmente interessato degli sconfitti della storia nel mondo moderno. È come un fil rouge che unisce anche le mie pubblicazioni. Attualmente lavoro al proseguimento di Mondi perduti, in cui viene trattata la storia del movimento di autodeterminazione degli indiani negli Stati Uniti tra il 1919 e il 1992».
Il cacciatore di ombre
La mostra su Edward S. Curtis al NONAM di Zurigo
«Abbiamo davvero tanti visitatori dalla Svizzera italiana. Si vede che su di voi i nativi americani esercitano un fascino particolare...». Sorride compiaciuta Kristina Kampmann, addetta stampa del NONAM, quando scopre che siamo venuti fino a Seefeld in pellegrinaggio dal Ticino. Anche perché il Nordamerika Native Museum di Zurigo è realmente una sorta di mecca elvetica per tutto quanto concerne lo studio della storia dei «primi popoli» e nel corso del tempo, a partire dalla originaria collezione Hotz degli anni Sessanta fino a questa nuova sede (inaugurata nel 2003 in un ex birrificio quasi al confine con il comune di Zollikon) sotto la guida dell’etnologa Heidrun Löb (che lo dirige dal 2012) è diventato un centro di competenza internazionale, antropologico ed etnografico ma accessibile a famiglie e bambini, dedicato alle poliedriche culture dei nativi dell’America del Nord.
Alla formidabile collezione permanente, che permette a più livelli di approfondimento di compiere un’immersione totale (dagli Inuit artici ai Navajos dell’Arizona, dalle Sei Nazioni Irochesi al fiero popolo Modoc della costa nord-occidentale) nelle multiformi e spesso tragiche realtà dei nativi, il NONAM affianca come di consueto una mostra temporanea focalizzata quest’anno sulla figura, sul mito e sull’opera di un personaggio straordinario come il fotografo, esploratore ed etnologo Edward Sheriff Curtis (1868-1952) e sulla sua monumentale impresa editoriale, in venti volumi e portfolio, The North American Indian.
Un sincero tributo, curatissimo e ricchissimo di spunti e rivelazioni, nei confronti del «cacciatore di ombre» come lo ribattezzarono gli indiani, il coraggioso fotografo che non fu soltanto l’autore di alcune immagini che hanno marcato indelebilmente il nostro immaginario collettivo ma anche l’etnologo innamorato della cultura dei «primi popoli» che consacrò la sua esistenza a salvare dall’annientamento le ultime tracce e le ultime testimonianze (non solo visive ma anche grafiche e sonore) di un mondo che stava scomparendo. In ogni sfaccettatura a Zurigo si scopre l’avventura di The North American Indian, come Curtis volle intitolare la sua folle impresa editoriale (una specie di ciclopica bibbia in venti volumi rilegati a mano in cui condensare il meglio delle sue quasi cinquantamila fotografie, archiviate ed elaborate con la complicata tecnica artistica della photogravure) che si prefiggeva di documentare usi, costumi, rituali, tecniche di sopravvivenza, di caccia e di guerra, volti, leggende e situazioni che segnavano la forzata decadenza dei nativi americani appartenenti alle ottanta etnie superstiti fra la fine del XIX e gli albori del XX secolo.
Un’impresa che occupò materialmente, economicamente e moralmente tutta la vita di Edward Curtis finendo col coinvolgere persino politici (come il presidente Theodore Roosevelt che le fornì tutto il suo appoggio) e banchieri (come John Piermont Morgan) che contribuirono a finanziarla. Un’opera che su Curtis attirò anche l’ostilità di chi lo considerava «troppo amico degli indiani» o di chi stigmatizzò il suo creare artificialmente delle scene a tavolino per far rivivere un’epoca che ormai era definitivamente tramontata. Grazie a una mostra come questa possiamo invece capire l’importanza dell’immensa eredità culturale di Curtis. Con lui i nativi smisero di essere rappresentati soltanto secondo gli stereotipi dei vincitori per essere finalmente raccontati per quello che erano e che sono: degli esseri umani.