L'intervista

«L’immigrazione dopo Cutro? Non c’è nessuna emergenza»

Sessanta sbarchi in pochi giorni sulle coste italiane per un totale di 6.500 arrivi provenienti dalla Tunisia – La crisi economica e le tensioni sociali dello Stato magrebino provocano nuove ondate di partenze che preoccupano l’Europa – Ne abbiamo parlato con Maurizio Ambrosini, dell'Università degli Studi di Milano
© Ximena Borrazas / SOPA Images
Francesco Pellegrinelli
29.03.2023 06:00

Sessanta sbarchi in pochi giorni sulle coste italiane per un totale di 6.500 arrivi provenienti dalla Tunisia. Dopo il naufragio di Cutro, il tema dell’immigrazione via mare è tornato al centro dell’agenda politica europea. Quali le divergenze di vedute? La crisi economica e le tensioni sociali dello Stato magrebino provocano nuove ondate di partenze che preoccupano l’Europa e, in particolare, il Governo italiano. Ne abbiamo parlato con Maurizio Ambrosini, docente di sociologia delle migrazioni all'Università degli Studi di Milano.

Professor Ambrosini, ci troviamo di fronte a una nuova emergenza?
«Nel 2022, in pochi mesi, l’Europa ha accolto 5 milioni di rifugiati ucraini. Nessuno, però, ha gridato all’allarme. Ognuno ha fatto la sua parte, dando prova di grande spirito di coesione. In queste settimane - è vero - gli sbarchi sono aumentati. Da gennaio 2023, però, sono arrivate sulle coste italiane poco più di 25.000 persone. Oggi, si parla di emergenza e si chiede un piano europeo per salvare un Paese al collasso. Bene. Forse, però, è un po’ eccessivo. Se questo grido d’allarme si traducesse in un incentivo politico per una maggiore attenzione alla sponda sud del Mediterraneo - per esempio attraverso un programma di sostegno allo sviluppo - allora questa discussione avrebbe comunque risvolti positivi. Temo, tuttavia, che gli aiuti serviranno unicamente a rafforzare la vigilanza delle coste e a impedire le partenze dai Paesi di origine. Tornando ai rifugiati ucraini, il vero tema è un altro: ci sono profughi di serie A e di serie B, profughi di cui nessuno vuole sentire parlare, anche se fuggono ugualmente da guerre e violenza».

La politica sta cavalcando il tema con altre finalità?
«Da una parte, la politica è prigioniera dell’opinione pubblica. Le forze politiche tradizionali perdono terreno a discapito di nuove forme di populismo. Dall’altra, come in Italia, ci sono forze politiche che sono arrivate al potere e che sfruttano l’allarme immigrazione per rafforzare la propria identità e raccogliere consenso».

Quindi non c’è nessuna emergenza immigrazione?
«Non nei termini che si vuole far intendere. Non c’è nessuna invasione in corso. Lo dicono i numeri. Basti pensare che lunedì, per il click day, associazioni di categorie e aziende hanno inviato al Viminale 240 mila domande per l’ingresso di lavoratori stranieri. L’economia italiana ha bisogno di questi immigrati. Semmai, la vera emergenza è salvare vite umane nei mari. In dieci anni sono morte 26 mila persone».

È tuttavia innegabile che la questione migratoria, a livello europeo, debba essere regolamentata meglio. Al riguardo vi sono forti divergenze sul ruolo che dovrebbe ricoprire l’UE. Alcuni Paesi, tra cui l’Italia, chiedono maggiore solidarietà e coordinamento tra gli Stati membri. Condivide?
«La questione, fortemente divisiva, riguarda la revisione del Regolamento di Dublino, ossia la convezione che obbliga il primo Paese di ingresso a farsi carico dell’esame della domanda di asilo del richiedente. Ora, sebbene il problema esista, la comunicazione dei Paesi che chiedono un superamento della convenzione di Dublino si fonda su criteri errati. Mi spiego meglio. Nel 2022, la maggior parte delle domande di asilo è stata presentata in Germania, per un totale di 217 mila richieste. Seguono Francia (137 mila), Spagna (116 mila), Austria (108 mila). L’Italia, con 77 mila domande, figura nella parte passa della classifica. Il Belpaese non è quindi il campo profughi dell’Europa, come qualcuno vorrebbe far credere. Senza contare che sono proprio i Governi dell’est Europa - alleati dell’attuale Governo italiano - a schierarsi contro la riforma di Dublino. Detto questo, l’unica intesa su cui si sta lavorando a Bruxelles è un rafforzamento dei rimpatri, di Frontex, degli accordi con i Paesi di transito per fermare gli arrivi. Di vera politica migratoria non c’è traccia, a meno che non si voglia chiamare tale la decisione di accettare meno richieste di asilo».

La scorsa settimana, durante i due giorni di Consiglio europeo, il tema della migrazione non autorizzata è passato in secondo piano. Nelle discussioni bilaterali, tuttavia, è stato ventilato un ritorno dell’operazione Sophia (2015), che prevede il pattugliamento con navi militari del Mediterraneo. Che cosa ne pensa?
«Ancora una volta vediamo come la politica europea si stia attivando per realizzare un progetto di rafforzamento delle proprie frontiere. Chiaramente non mancano alcuni risvolti positivi, nella misura in cui si potrebbero salvare vite umane. Più che a “Sophia”, però, io guarderei a “Mare nostrum”, l’operazione italiana precedente, che arrivava più vicina alle coste libiche, con espliciti obiettivi di salvataggio».

Il nuovo decreto Cutro - approvato a marzo dal Governo italiano dopo l’annegamento di 71 migranti sulla costa della cittadina calabrese - che cosa ha introdotto?
«Oltre a commuovere l’opinione pubblica, scoperchiando il velo sui ritardi dei soccorsi, il decreto Cutro è stato anche l’occasione per il Governo Meloni di esibire il suo manifesto identitario. Ancora una volta, il decreto è un dispositivo che prevede chiusure, rafforzamento delle espulsioni, oltre a rendere più difficile, per il richiedente l’asilo, l’ottenimento dello statuto di protezione speciale. L’unica novità, assieme alla lotta agli scafisti, è una maggiore disponibilità nei confronti degli immigrati lavoratori».

Bruxelles condivide questa impostazione? La politica dell’asilo UE va nella medesima direzione?
«Alcuni Paesi UE sostengono politiche restrittive sulla gestione dell’immigrazione irregolare, come il controllo dei propri confini, la riduzione del numero di rifugiati accolti. Altri Paesi, invece, sostengono politiche più liberali e inclusive, oggi soprattutto per gli ingressi legati al lavoro. Ad ogni modo, la parola d’ordine più ricorrente a Bruxelles è “rimpatri”. In generale, comunque, gli Stati membri resistono ad accogliere i rifugiati. Ciononostante, le disparità di impegno umanitario sono manifeste. L’Italia, con 77 mila domande di asilo, si straccia le vesti e grida all’emergenza».

Forse, in Italia, il numero dei soggiornanti irregolari, ossia di chi vive sul territorio senza permesso, è superiore rispetto ad altri Paesi?
«Questa è un’invenzione tutta italiana. Le stime sul tema, per quanto difficili, smentiscono l’argomento. Quello che sappiamo, invece, è che gli immigrati irregolari non sono - come si pensa - loschi individui che frequentano le stazioni, ma soprattutto donne che lavorano nelle famiglie italiane. Semmai, quello che allarma maggiormente i partner europei - e che crea frizioni a Bruxelles – sono i cosiddetti movimenti secondari. In Italia, nel 2022 sono sbarcate più di 100 mila persone, ma le domande di asilo presentate sono state 77 mila; circa 20.000 mila migranti presumibilmente hanno lasciato l’Italia aggirando il Regolamento di Dublino, e altri si spostano dopo aver chiesto asilo in Italia».

Quale modello, secondo lei, andrebbe allora applicato?
«Il medesimo che abbiamo riservato agli ucraini. A cui è stata data piena libertà di spostarsi dove meglio credevano, raggiungendo, per esempio, conoscenti e familiari. Nei Paesi in cui s’insediano, Bruxelles dovrebbe sostenere maggiormente i costi sociali che l’integrazione comporta».

Ma non è quanto chiede l’Italia quando suggerisce una revisione del trattato di Dublino?
«No. L’Italia chiede semplicemente una ridistribuzione obbligatoria tra Stati membri. Una revisione, dunque, che non tiene conto dei legami affettivi o di interesse di un richiedente l’asilo che giunge in Europa. Spedire un immigrato in Ungheria quando ha parenti in Portogallo, non ha senso e non funzionerà».

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