L'intelligenza artificiale indossa la divisa, e la Silicon Valley va alla guerra

L’intelligenza artificiale (IA) va alla guerra. Sotto le insegne dei due grandi Paesi che competono per il predominio del settore: gli Stati Uniti e la Cina. Ed era forse inevitabile, hanno scritto molti commentatori. Visti soprattutto i bilanci in profondo rosso di tutte le società che hanno deciso di investire nel pensiero virtuale, e visti i profitti potenzialmente immensi ricavabili - almeno negli USA - dalla firma dei contratti con il Pentagono.
Per il 2025, il National Defense Authorization Act (NDAA) - la legge con cui il Congresso di Washington ogni anno autorizza i finanziamenti e stabilisce le politiche per il Dipartimento della Difesa (DoD) - prevede 923,3 miliardi di dollari di spese(poco più dell’intero PIL della Svizzera), con un aumento del 4,1% rispetto ai 12 mesi precedenti. Lo stesso DoD, nel solo 2024 aveva stanziato 40 miliardi di dollari per l’acquisizione di tecnologie digitali: 21 miliardi per il cosiddetto C4I (comando, controllo, comunicazioni, computer e intelligence) e altri 19 per la ricerca in intelligenza artificiale, tecnologie spaziali, microelettronica e tecnologie quantistiche.
Nel giro di un tempo che alcuni pronosticano «molto breve», le Big Tech diventeranno il cuore dell’industria bellica, soppiantando - o, quantomeno, facendo loro una gigantesca concorrenza - le aziende del tradizionale complesso militare-industriale americano: Lockheed Martin, Northrop Grumman e gli altri grandi costruttori di sistemi d’arma.
Cambio di pelle
Insomma, la Silicon Valley ha indossato l’elmetto. E, per farlo, ha cambiato pelle. Quasi negando sé stessa.
Fino a pochi anni fa, in tempi pre-Covid, molti grandi colossi dell’industria informatica - a partire da Meta e Google - vietavano esplicitamente nei propri codici etici interni la collaborazione con il Pentagono, e ogni violazione di questa scelta era destinata a fare rumore. Nel 2018, ad esempio, oltre 3 mila dipendenti di Google avevano sottoscritto una lettera di biasimo protestando contro il coinvolgimento dell’azienda nel cosiddetto «Progetto Maven», teso a sviluppare un sistema di riconoscimento immagini ed elaborazione dati a scopo bellico. Dopo quella presa di posizione, Mountain View si era vista costretta a rinunciare al contratto, girato subito dai militari a Microsoft e Amazon.
Le cose, come detto, sono molto cambiate, e non soltanto per la presenza dei grandi «broligarchs» al secondo insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Nell’aprile dello scorso anno, i dipendenti di Google avevano, ad esempio, provato nuovamente a protestare contro l’utilizzo da parte dell’esercito israeliano di alcune tecnologie sviluppate nell’àmbito del «progetto Nimbus», il cui obiettivo è la creazione di una piattaforma virtuale (cloud platform) in grado di fornire all’IDF e ai servizi di sicurezza dello Stato ebraico capacità di rilevamento facciale, categorizzazione automatizzata delle immagini, tracciamento degli oggetti e analisi del sentiment, strumenti già utilizzati dalla US Customs and Border Protection per la sorveglianza delle frontiere.
Il risultato della protesta è stato molto diverso da quello di 7 anni fa ed è sfociato nel licenziamento in tronco di una cinquantina di ingegneri.
Trasformazione graduale
Le Big Tech stanno quindi trasformandosi, gradualmente, nelle Defense Tech. La maschera progressista che a lungo hanno indossato è stata infine calata. Come ha scritto Wired, «nessuno adesso sembra più farsi scrupoli a seguire la strada tracciata dalle due più note realtà del settore: Palantir e Anduril, aziende fondate rispettivamente dall’eminenza grigia della tecno-destra Peter Thiel (il mentore riconosciuto del vicepresidente JD Vance, ndr) e da Palmer Luckey, già noto per aver detto “Vogliamo costruire tecnologie che ci diano la capacità di vincere facilmente ogni guerra”.
Andrew Bosworth, direttore tecnico di Meta, ha spiegato in un’intervista al Wall Street Journal il mutato clima politico all’interno delle Big Tech: «C’è un sacco di patriottismo, tenuto nascosto a lungo, che adesso sta venendo alla luce». Lo stesso Bosworth - assieme a Kevin Weil e Bob McGrew, rispettivamente responsabile del prodotto ed ex responsabile della ricerca di OpenAI, ai quali si aggiunge Shyam Sankar, direttore tecnico di Palantir - è uno dei quattro dirigenti tech assoldati in quello che i media americani hanno ribattezzato Army Innovation Corps: il Corpo degli ingegneri degli Stati Uniti.
Dalla musica ai droni
La rivoluzione al contrario della Silicon Valley non sembra facilmente contrastabile. Le imprese che fino a pochi anni fa promettevano di abbattere ogni genere di barriera e spalancare le porte del mondo a chiunque avesse una connessione Internet, oggi sembrano non vedere l’ora di combattere. In nome del profitto.
Perché poi, alla fine, è questo il vero motivo di una trasformazione così radicale. Le tecnologie militari sono diventate un’area calda per gli investitori, in particolare da quando la Russia ha invaso l’Ucraina e Israele ha mosso guerra ad Hamas. Meno di un mese fa, l’ultima, clamorosa dimostrazione concreta di tutto ciò è stata la decisione del fondatore e amministratore delegato della piattaforma di streaming musicale Spotify, Daniel Ek, di investire 600 milioni di euro nella startup tedesca Helsing, specializzata nella produzione di droni da combattimento dotati di intelligenza artificiale.
Indifferente alle proteste di cantanti, autori e utilizzatori di Spotify, critici verso la svolta bellicista e pronti ad abbandonare la piattaforma musicale, Ek è andato avanti per la sua nuova strada. In compagnia di altri tre imprenditori tedeschi: Torsten Reil, Niklas Köhler e Gundbert Scherf, quest’ultimo con un passato di alto funzionario del ministero tedesco della Difesa. Grazie anche alla liquidità portata in dote da Ek, la Helsing continuerà così nello sviluppo del drone HX-2, un velivolo da combattimento capace di raggiungere obiettivi fino a 100 chilometri di distanza e in grado di resistere alle interferenze elettroniche nemiche. Una tecnologia, quella di Helsing, che ha già trovato una prima applicazione sul campo in Ucraina, Paese cui l’azienda tedesca ha fornito centinaia di droni in due distinte commesse.
«Sono sicuro che la gente mi criticherà, ma va bene così - ha detto Ek qualche giorno fa al Financial Times - Mi concentro su quello che penso sia giusto, e sono convinto al 100% che questa sia la cosa giusta per l’Europa».