Il punto

«L’Occidente non dimentichi l’Afghanistan»

A oltre quattro mesi dalla partenza delle truppe statunitensi, nel Paese la situazione rimane drammatica - Fra violenze e diritti negati, le donne afghane non hanno smesso di lottare - Ne parliamo con la giornalista italiana Cristiana Cella
Una delle molte manifestazioni tenutesi a Kabul. / © AP/Ahmad Halabisaz / KEYSTONE
Giacomo Butti
12.01.2022 15:03

«Boots on the ground», letteralmente: stivali sul terreno. È con questa espressione che, nel gergo militare, si descrive un’operazione che prevede la presenza fisica di soldati nell’area di conflitto. Sono passati più di quattro mesi da quando le suole degli stivali statunitensi hanno sollevato le ultime polveri in Afghanistan. Nel periodo seguente il caotico ritiro, la situazione nel Paese è rimasta drammatica: il Governo in mano a ricercati talebani, la violenza sulla popolazione, in particolare sulle donne, sempre meno celata dietro i buoni propositi riguardanti la creazione di uno Stato di diritto degno del confronto internazionale. Ma a persistere è anche la forza di volontà delle attiviste che, pur in mezzo ai grandi pericoli della nuova (vecchia) situazione, hanno continuato a manifestare per i propri diritti. Ne abbiamo parlato con la giornalista italiana Cristiana Cella, da anni attiva nell’onlus CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), che lo scorso 25 agosto, a dieci giorni dalla presa di Kabul, ci aveva raccontato di «un ciclo perpetuo di violenze subite da mani diverse» nel Paese negli ultimi 40 anni.

Kabul è come una vetrina: lì i talebani devono mantenere un minimo di credibilità internazionale, per questo evitano di uccidere nelle strade le oppositrici

«Oggi sono gruppi piccoli», ci spiega, «ma i movimenti femminili si sono mantenuti. E con grande coraggio. Alcune donne che hanno partecipato a queste manifestazioni sono state uccise, ma in questo momento Kabul è ancora una vetrina, un luogo dove i talebani devono mantenere un minimo di credibilità internazionale per intavolare discorsi con l’Occidente e accedere ai fondi del Governo precedente al momento congelati. Uccidere queste donne per strada sarebbe per loro controproducente. Non per questo evitano di arrestarle, picchiarle, torturarle». Ma cosa succederebbe se, più stabili a livello istituzionale ed economico, i talebani dovessero effettivamente prendere il controllo del Paese senza paura di interferenze esterne? «Allora non tollereranno più simili manifestazioni. Le violenze aumenterebbero a dismisura. Già ora chi va in piazza sa che lo fa a suo rischio e pericolo».

Una manifestazione tenutasi ieri a Kabul al grido di «Pane, scuola, libertà»

Nelle province secondarie «è tutto ancora più difficile», spiega Cella. «Queste parti del Paese erano già nelle mani dei talebani, la situazione è cambiata poco. E lì la volontà di opporsi, la forza di manifestare, si è spenta da diversi anni. I talebani possono imporre la propria legge con la forza, senza nessuna ripercussione».

Kabul non è più l’isola dove i profughi interni potevano negli scorsi anni, per quanto possibile, sentirsi al sicuro. Forse non lo è mai stata. «Con metà del Paese rimasto in mano ai talebani, l’altra metà affidata ai signori della guerra e della droga, il periodo della presenza occidentale non è mai stato facile. Una piccola percentuale di donne poteva andare a scuola e lavorare. Alcune diventavano giudici, avvocate, giornaliste. E molte di queste, tra il 2018 e il 2020 (ben prima del ritiro degli statunitensi, ndr) sono state uccise in una serie di omicidi mirati». Donne, sottolinea Cella, che hanno pagato con la vita il loro «percorso di affermazione, di autodeterminazione. Già allora, comunque, le ragazze che avevano la possibilità di studiare erano pochissime: nelle campagne l’analfabetismo toccava il 90%».

Numerose donne hanno pagato con la vita il loro percorso di affermazione, di autodeterminazione

Del diritto all’educazione le attiviste ancora presenti nel Paese hanno fatto un punto cardine delle proprie rivendicazioni. Da 20 anni l’onlus italiana CISDA collabora con RAWA (Revolutionary association of the women of Afghanistan), organizzazione socio-politica che si batte per la tutela dei diritti delle donne. «Siamo costantemente in contatto con loro. Le donne di RAWA ci raccontano come la situazione sia estremamente fragile, precaria. In questo momento esistono ancora piccoli spazi, luoghi dove continuare (spesso di nascosto) corsi di alfabetizzazione e formazione per donne. Per quarant’anni l’organizzazione si è occupata dei diritti delle donne e la scolarizzazione è sempre stato un aspetto molto importante perché l’istruzione è la porta d’ingresso per il cambiamento».

L’istruzione è la porta d’ingresso per il cambiamento

Cella descrive quindi un caso emblematico, un esempio di come se da un lato l’istruzione possa cambiare profondamente la vita, la sua negazione significhi invece la fine di tutto. «Per tanti anni», spiega, «abbiamo sostenuto l’orfanotrofio AFCECO (Afghan child education and care organization), nato nei campi profughi di Kabul negli anni ‘90». Nelle diverse sedi, «oltre a poter studiare, le ragazze accolte sono state libere di creare squadre di calcio femminile, imparare la musica». Particolarmente riuscito, e famoso, il progetto dell’Orchestra Zohra, che proprio nella collaborazione tra l’orfanotrofio AFCECO e l’Accademia di musica di Kabul trae le sue origini. Nato nel 2015, l’ensemble costituito da sole donne ha potuto esibirsi per il mondo. Ma la fama comporta maggiori rischi. L’Accademia», racconta Cella, «è stata occupata dalla rete Haqqani, i più feroci fra i talebani. Per loro la musica è qualcosa di diabolico». Entrati, trionfanti, nella struttura, gli studenti coranici si sono accaniti sugli strumenti, distruggendo con essi intere esistenze. «La vita delle ragazze, la bella esperienza provata, è andata in fumo. Dopo l’ascesa dei talebani si è cercato di farle scappare e alcune ci sono riuscite. Altre sono ancora a Kabul, nascoste, e rischiano la vita ogni giorno. Ora la speranza è ultimare la loro evacuazione, ma passare dalle frontiere, quasi tutte chiuse, non è una cosa semplice».

Lo spazio per l’ottimismo è poco. «RAWA è convinta che i piccoli centri di formazione ancora esistenti siano lì solo per le difficoltà che i talebani stanno riscontrando nel mantenere il controllo sulla totalità del Paese. Una volta stabilizzatasi la situazione, saranno più attenti a far rispettare le proprie regole e per chi lavora per i diritti umani sarà molto più difficile e pericoloso operare». Il nuovo Governo, del resto, è formato da elementi poco raccomandabili: «La composizione dell’esecutivo è una cosa spaventosa», conferma la giornalista. «Sono tutti terroristi con taglie milionarie sulla testa. I responsabili dei peggiori attentati degli ultimi decenni sono ora ministri».

E riuscire a far fuggire dal Paese le donne «istruite», ribelli, sembra ormai un’utopia. Dimenticate le immagini dei grandi aerei che partono da Kabul. «Non ce ne sono più. Via terra esistono varie piste, canali istituzionali con i quali si cerca di far fuggire le persone che più rischiano la propria vita sotto il regime dei talebani. Il CISDA stesso si è occupato di compilare delle liste di cittadini da salvare. Spesso», evidenzia Cella, «il percorso da seguire è quello che porta al Pakistan. Chi riesce a raggiungere questo Paese, poi può fuggire nel resto del mondo». Ma il primo passo è il più difficile: «Il problema è arrivare lì. Come sempre in questi casi, è nato un vero e proprio business, con i passatori che per denaro promettono una via per superare la frontiera. Ma non è detto che riescano a tenere fede alla propria parte di contratto o, semplicemente, che vogliano farlo».

«Dobbiamo seminare speranza

Da tempo, dicevamo, CISDA si dà da fare per la popolazione afghana. «Raccogliamo fondi per le opere di RAWA e forniamo sostegno politico in Italia e in Afghanistan», spiega la giornalista. Ma, forse ancora più importante, è l’opera di informazione. «Cerchiamo di scrivere il più possibile sulle vite di queste donne, facendo sentire le loro voci. Storie di una resistenza vera, democratica, sostenuta da persone straordinarie. Donne che, tuttora, continuano a combattere perché ritengono che il loro antico patto in sostegno dei diritti femminili sia a maggior ragione necessario nell’attuale momento di grave crisi. ‘‘Dobbiamo seminare speranza’’, ci hanno detto».

Il rischio è che, come già fatto in passato, si chiuda la porta gettando via la chiave: non dimentichiamoci dell’Afghanistan

Già, perché il pericolo maggiore è proprio questo: l’oblio. Una damnatio memoriae per un Paese «scomodo». «Stati Uniti e alleati hanno arrecato gravi ferite all’Afghanistan in questi anni. Il rischio ora è che si chiuda la porta e si getti via la chiave, come già successo negli anni ‘90, quando i talebani erano amici di Washington e ciò che succedeva nel Paese non interessava a nessuno». Se l’Afghanistan dovesse scivolare nelle ultime posizioni dell’agenda internazionale, le conseguenze per i civili sarebbero gravissime: «L’ultima coltellata per un Paese che ha sofferto, in quarant’anni, innumerevoli invasioni e guerre». Quindi l’appello: «Non dimentichiamoci di loro».

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