L'editoriale

L'opportunità della politica nella crisi dei giornali

I tagli di Tamedia sono il drammatico segnale che tutto il giornalismo elvetico è alle prese con una crisi che non è «di transizione» (ad esempio dal cartaceo al digitale) ma somiglia molto di più a un assedio vero e proprio, culturale e commerciale
© CdT/Gabriele Putzu
Paride Pelli
28.08.2024 06:00

Quella arrivata ieri da Zurigo non è la solita notizia da un settore, l’editoria dei giornali e dei periodici, che almeno da quindici anni si trova in una crisi di cui non si vede la fine. È una notizia più grave ancora, un campanello d’allarme da non prendere sottogamba. Il Gruppo Tamedia, il più grande della Confederazione, ha deciso di sopprimere 200 posti nel settore tipografico e ben 90 nelle redazioni. La gestione delle tipografie non è profittevole: tutte le attività di stampa verranno concentrate a Berna, con risparmi sulla logistica. Fin qui, una scelta dolorosa ma comprensibile. Più preoccupante è il consistente taglio di giornalisti. L’obiettivo dichiarato del Gruppo è concentrare gli sforzi sulle proprie quattro testate principali e rafforzare la relativa offerta digitale, mantenendo il cartaceo. Tutto ciò, però, accade in un contesto dove Tamedia aveva già soppresso 80 posti alla fine dell’anno scorso e dove, nello stesso periodo, altri tre grandi gruppi editoriali svizzeri - CH Media, Ringier, ESH Médias – avevano annunciato tagli per oltre 220 posti complessivi.

C’è stato chi nelle ultime ore, guardando ai bilanci, ha accusato Tamedia di voler massimizzare i profitti. La questione è più complicata e, come si diceva, più allarmante. Il gruppo zurighese negli ultimi anni ha riorganizzato e diversificato le proprie attività forse più di tutti gli altri, entrando in settori laterali se non proprio distanti dal giornalismo, come l’e-commerce. La paradossale decisione di tagliare ancora sulla redazione è il drammatico segnale che tutto il giornalismo elvetico – per restare in casa nostra – è alle prese con una crisi che non è «di transizione» (ad esempio dal cartaceo al digitale) ma somiglia molto di più a un assedio vero e proprio. Un assedio culturale e commerciale. L’ecosistema dei media si è modificato profondamente nel giro di un decennio: i costi, per varie ragioni anche geopolitiche, sono schizzati alle stelle, i ricavi della pubblicità, a causa di una concorrenza aggressiva e deliberata dei giganti del web, registrano ogni anno flessioni regolari. A soffrirne in particolar modo sono le testate cartacee, quelle che garantiscono ancora, tra mille problemi, una informazione presidiata su tutto il territorio della Confederazione.

Ma anche per il giornalismo digitale, ammettiamolo, le cose non vanno come dovrebbero. I siti di informazione che fanno il loro lavoro con una professionalità molto alta hanno difficoltà a far quadrare i bilanci. I bassi prezzi degli abbonamenti, la capillare insidia dei social media e un mercato ahinoi piuttosto limitato lasciano ancora buona parte del giornalismo digitale in passivo. Eppure anche nel nostro cantone – lo dimostrano i numeri del web dopo un’estate da record a livello di clic – c’è una richiesta inossidabile di informazione, di approfondimento, di analisi; tutto questo, appunto, dentro un ecosistema che non aiuta però chi fa informazione seria, verificata e pluralista, ma tende a privilegiare chi si limita con poche spese ad abborracciare, per «fare numeri», articoli che lasciano il tempo che trovano.

A costo di sembrare dei dischi rotti, dobbiamo dunque tornare – ça va sans dire – sul tema del sostegno pubblico indiretto per la stampa locale e regionale. Nella prossima sessione autunnale il Consiglio Nazionale discuterà un’iniziativa che chiede di portarlo da 45 a 95 milioni di franchi sotto forma di riduzione delle tariffe di consegna dei giornali da parte della Posta. Se l’iniziativa dovesse avere buon esito, circa 150 quotidiani e settimanali continuerebbero a sviluppare e a promuovere quel tipo di giornalismo serio che ci sembra ancora uno dei pilastri del pluralismo e della democrazia svizzera. Sarebbe un segnale incoraggiante e la dimostrazione che anche la classe politica ha (finalmente) capito i rischi di una desertificazione del nostro paesaggio mediatico.