Sharing economy

L’«uberizzazione» della nostra società

Lo stop di Londra al colosso americano Uber ha riacceso il dibattito attorno a un modello di business diffusissimo ma anche controverso
© AP/Kirsty Wigglesworth
Stefano Olivari
29.11.2019 19:43

Lo stop di Londra a Uber, imposto dall’autorità comunale per i trasporti, è una buona notizia per i tassisti e un duro colpo per l’azienda statunitense e per quella che in senso ampio viene definita sharing economy. Una realtà con cui tutti dobbiamo fare i conti, perché indirettamente condiziona chiunque.

«Uberizzazione»

Economia della condivisione suona meglio di «uberizzazione», nei convegni sui massimi sistemi, ma spesso di condiviso c’è pochissimo. Se al termine «condiviso» sostituiamo «Deregolamentazione con l’aiuto di una piattaforma web» il concetto diventa più chiaro. Un’ondata gigantesca di disintermediazione che sta sommergendo economie e strutture sociali, toccando tutti i campi: trasporti, alberghi, banche, ristorazione e in generale il commercio. Quanti negozi tradizionali sono contenti dell’ascesa di Amazon o eBay? Quanti albergatori prendono in maniera sportiva la concorrenza di Airbnb?

Un libro su Amazon

Bisogna resistere alla tentazione di far passare il vecchio negoziante, con i suoi ricarichi consentiti dalla mancanza di concorrenza, per il «buono» e i giganti web per i «cattivi» di una storia che non ha uno sceneggiatore ma che di sicuro ha un pubblico, cioè tutti noi. Che a seconda della situazione recitiamo diverse parti: consumatori che risparmiano comprando il libro su Amazon, lavoratori che perdono il lavoro se siamo impiegati in una libreria. L’esempio di Amazon non è scelto a caso, visto che la Svizzera è uno dei pochi Paesi al mondo che ha cercato di far pagare le tasse al colosso di Jeff Bezos. Il risultato è che in Svizzera non esiste un Amazon locale, un Amazon.ch, e nemmeno un centro logistico di Amazon. I clienti ticinesi e degli altri cantoni sono stati invitati, nel dicembre dell’anno scorso, ad effettuare i loro ordini sugli Amazon tedeschi, francesi o italiani. Tutto questo per non pagare un’imposta sul valore aggiunto del 7,7%.

Airbnb

Il caso Airbnb dimostra pericoli e opportunità di questo nuovo mondo. Perché le transazioni avvengono formalmente fra privati che affittano una loro casa, o una stanza, riconoscendo ad Airbnb una commissione, ed altri privati che la affittano, ma la realtà è che molti proprietari immobiliari hanno visto l’opportunità di trasformarsi in albergatori mascherati. L’effetto è stato quello della trasformazione dei centri storici in molte città, non solo Venezia o Firenze: i proprietari si trasferiscono e affittano i loro appartamenti a turisti o uomini d’affari che per pochi giorni non stanno a sottilizzare sui servizi. Airbnb sta però trovando resistenze ed è per questo che spende più di un quarto del suo fatturato in pubblicità e marketing. Ponendo un tema politico chiaro: liberalizzare fa guadagnare voti o li fa perdere? Di sicuro negativi, nel caso di Airbnb, gli effetti sull’aumento dei prezzi delle case (circa il 5% in media) e la reazione, in genere di chiusura, della politica locale che prova un po’ ovunque ad aumentare la regolamentazione degli affitti brevi. Clamorosa la rivolta degli albergatori e dello stesso sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, contro il fatto che Airbnb risulti fra gli sponsor dei Giochi olimpici di Parigi 2024. In realtà il contratto da mezzo miliardo di franchi in totale non è con Parigi ma è stato stipulato a Losanna con il CIO: riguarda Parigi, Milano-Cortina 2026 e Los Angeles 2028.

Il car sharing

La sharing economy sta colpendo anche il mercato dell’auto e tutta la filiera produttiva ed esso connessa. Certo non è colpa degli svizzeri che utilizzano il car sharing di Mobility se Audi, tanto per fare un esempio recentissimo, licenzierà 9.500 dei suoi 61.000 dipendenti in Germania, ma di sicuro il car sharing si inserisce in un contesto culturale in cui la proprietà per molti perde valore mentre per altri è un valore in sé. In altre parole, si stanno dividendo nettamente due classi sociali di chi possiede un bene e di chi lo affitta. Concetto una volta intuitivo per le case, ma che oggi viene applicato a tutto. Rimane la domanda da consumatori: perché dovremmo acquistare un bene che utilizziamo poco?

Questione di opportunità

In conclusione si può dire che la sharing economy e tutta l’economia disintermediata avvantaggi chi gestisce le piattaforme che mettono in contatto domanda e offerta, e spesso il cittadino inteso come cliente consumatore, con risparmi nell’ordine del 20%, senza contare la comodità. Per quanto riguarda il cittadino nella sua vita di lavoratore, ma anche di padre-madre con una vita da organizzare, se ne può e anzi se ne deve, discutere. Un mondo di troppe opportunità rende felice chi le opportunità le sa cogliere, ma molte persone non hanno l’intelligenza né la cultura per farlo. E la cosa più difficile da ammettere è in fondo questa.

TFL contro il gigante californiano

TFL, cioè Transport of London, è la società che gestisce le attività dei taxi e del trasporto privato a Londra. È proprio TFL a non avere rinnovato la licenza a Uber: un battaglia che va avanti dal settembre 2017, quando la prima sospensione arrivò per «Potenziali rischi per i passeggeri e per la loro sicurezza». Di proroga in proroga la nuova scadenza per Uber a Londra è il 30 novembre. Al di là di ricorsi e controricorsi, sono stati individuati casi di autisti Uber senza licenza o assicurazione, senza contare le manipolazioni della app. La posta in palio è notevolissima, visto che solo a Londra Uber ha tre milioni e mezzo di passeggeri all’anno, oltre che 45.000 tassisti o pseudotali. Senza contare il danno di immagine, visto che c’è una fascia considerevole della clientela che non guarda solo al prezzo, ma al servizio complessivo.

Una realtà amata dalle nuove generazioni

PARIGI CAPITALE - Parigi è un po’ la capitale della rivolta contro la cosiddetta «uberizzazione» dell’economia, nella direzione di un mondo in cui tutti siamo precari o ci sentiamo tali. Dopo Uber e Airbnb nel mirino è finita anche Amazon, visto che la capitale francese sta pensando ad una tassazione speciale per le consegne a domicilio, una specie di legge Amazon ma che riguarda anche tutte le piattaforme che permettono di ordinare cibo a domicilio: l’obiettivo è anche vagamente ambientalista, vista la quantità di sacchetti e imballaggi difficili da smaltire.

CALIFORNIA – Quasi tutte le start-up che della sharing economy e della disintermediazione sono state messe in piedi in California. Non fa eccezione Airbnb: nata nel 2008 da un’idea di Brian Chesky, Joe Gebbia e Nathan Blecharczyk, ex compagni di scuola che avevano iniziato a guadagnare qualcosa affittando una parte del proprio loft a gente di passaggio a San Francisco. La prima versione del sito e della app si chiamava AirBedandBreakfast.com. Quella attuale dà lavoro, in forma tradizionale e non di sharing o precariato, a quasi 13.000 persone. Il gigante degli affitti online fattura l’equivalente di 4 miliardi di franchi all’anno e viene utilizzato da 150 milioni di persone.

BICI A MILANO - Una delle armi dello sharing è quella di godere, di solito, di una buona immagine sui media. Tutto ciò che è sharing suona moderno, giovane, brillante, intelligente, internazionale. In parte è così, ma se pensiamo alle biciclette bisognerebbe dirlo a chi a Milano ha fatto fallire Ofo e portato Mobike a ristrutturarsi. Migliaia di bici spaccate, danneggiate, gettate nel Naviglio. Va un po’ meglio per le auto, ma anche lì i margini sono ridottissimi.

DISOCCUPAZIONE - La disgregazione del tessuto sociale è evidente, anche se è difficilmente quantificabile con le fredde cifre della disoccupazione: negli Stati Uniti, per cultura nazionale più portati verso le novità, i disoccupati sono il 3,6%, una delle percentuali più base della storia. In termini assoluti è indiscutibile anche il fatto, ovviamente ben sottolineato da Trump, che il numero di lavoratori americani sia attualmente il più alto della storia: quasi 160 milioni di persone.

MILLENNIAL E GENERAZIONE Z – La generazione dei nati fra il 1980 e il 1995, quella successiva alla generazione X raccontata da Douglas Coupland, è la più vicina culturalmente alla sharing economy. Secondo una recente indagine di Bain & Company il 60% dei millennial ordina cibo a domicilio, il 55% utilizza il car sharing e il 77% utilizza i canali online per effettuare operazioni bancarie. La sharing economy dovrebbe conquistare sempre più quote di mercato con la generazione dei nati fra il 1996 e il 2010, la cosiddetta generazione Z. Si tratta della prima generazione di nativi digitali totali, persone che hanno sempre vissuto nel mondo di Internet.

WEBSOFT – Nel 2018 il fatturato complessivo dei 25 giganti del settore cosiddetto Websoft, non tutti operanti nella sharing economy ma tutti ad essa associati, è stato di circa 1.000 miliardi di franchi, con utili stimati nell’ordine dei 150. Su base quinquennale, dal 2014, la crescita è stata di circa il 110%. Nello stesso periodo le multinazionali del settore manifatturiero sono cresciute del 13%.