La testimonianza

«Lui mi tendeva la mano, io non potevo toccarla»

L’addio di una figlia al padre morto in casa anziani durante la pandemia
Aurelio e Simona in una foto di qualche tempo fa.
Carlo Silini
20.06.2020 06:00

Se si vuole raccontare il dramma dei malati terminali nelle case per anziani in pandemia, ci vuole una storia che si attenga alla ruvidità dei fatti, sospendendo ogni giudizio. Così avrebbe voluto Aurelio, che se n’è andato il 22 aprile in un istituto per anziani nel Bellinzonese. La figlia Simona ci ha spiegato i suoi ultimi giorni.

«Mio padre conviveva con il Parkinson da due decenni. E ha chiuso gli occhi per sempre all’età di 85 anni mentre impazzava l’epidemia di COVID-19. Così ha dovuto vivere sulla propria pelle le eccezionali restrizioni che hanno toccato tutti gli ospiti dei ricoveri nella fase più acuta della crisi».

Un legame strettissimo

Il legame di Simona con suo padre è profondissimo, non solo per ragioni di consanguineità. «Negli ultimi ventiquattro anni, da quando cioè io ne avevo venti, ho accompagnato papà in tutte le fasi della sua malattia. Sono figlia unica, mamma è morta quando ero ancora una ragazzina e lui non si è mai risposato. Ero con lui quando ha cominciato ad usare i bastoni, poi il deambulatore. Abbiamo vissuto insieme ogni novità e mi ha sempre colpito il fatto che volesse aggiungere vita ai giorni, non giorni alla vita. Insomma, si è sempre sforzato di vivere al meglio anche col Parkinson, non ha mai voluto chiudersi in casa. ‘Al limite cado e mi faccio un po’ male, ma è la vita’, diceva. Ricordo le sue cadute quando andava in città, o quando al supermercato le arance che teneva in mano finivano sul pavimento. E ancora, quando si bloccava di colpo sulle strisce pedonali e non andava né avanti né indietro. Ogni tanto, facendo una fatica infinita, suonava la fisarmonica: gli piaceva la musica. Qualche anno fa mi ha scritto una frase che lo rappresenta in tutto e per tutto: ‘Ora ho capito che tutta la gioia che cerchiamo è nascosta nel nostro cuore. Svegliamola, usiamola, perché nessun Parkinson potrà mai spegnere la mia gioia di vivere’».

Per Simona, quindi, seguire il padre in ogni sviluppo della malattia era una consuetudine. Quando il coronavirus si è palesato in Ticino sapeva che l’avrebbe accompagnato con la stessa determinazione anche fra le restrizioni imposte per salvaguardare la sicurezza degli ospiti e dei loro parenti. In un modo o nell’altro è riuscita a mantenere il contatto col papà e a stargli il più vicino possibile.

All’inizio della crisi le misure di sicurezza erano molto rigide. Ho fatto di tutto per restargli accanto

Era «lucido e attivo»

Aurelio, ci spiega, è rimasto «lucido e attivo» quasi fino alla fine. «Anche nelle ultime settimane ascoltava le notizie alla radio e seguiva il Quotidiano, voleva rimanere informato», osserva. «Se ho deciso di rendere pubblica la storia dei momenti finali della sua esistenza è perché, ora che la situazione sanitaria è migliorata, mi pare importante riflettere sulle impostazioni dettate dall’emergenza e ascoltare la sofferenza di chi l’ha vissuta. A bocce ferme, mi chiedo se non si possano immaginare altre modalità per affrontare il problema. Per esempio, ritengo particolarmente importante la capacità di ascolto delle persone che stanno accanto agli anziani da parte del personale curante».

C’è un fondo d’amarezza nelle sue parole, «lo ammetto, mi sento ancora molto coinvolta, dispiaciuta e triste per questa vicenda. La mia è una riflessione ad alta voce, non è mia intenzione polemizzare, non mi interessa».

A Simona preme soprattutto condividere i moti dell’animo che ha colto in suo padre durante quei giorni, e che – probabilmente – sono stati vissuti da numerosi altri anziani malati nello stesso periodo: «la solitudine, la lontananza dagli affetti. Si sentiva in gabbia. Me l’ha detto lui stesso quando andavo a trovarlo all’inizio della pandemia e ci salutavamo dalla porta a vetri della casa per anziani. Poi le restrizioni si sono fatte ancora più severe e vedersi è diventato più difficile».

«Non si lamentava»

Simona sottolinea che, all’inizio della crisi pandemica, suo padre «non si è mai lamentato della situazione. Del resto non era il tipo. Anzi, ha cercato di trovare degli interessi per intrattenersi. Gli avevo portato una tastiera perché suonasse e trovasse il modo di occupare il tempo nelle lunghe giornate che l’aspettavano».

Poi, piano piano, il morale si è infiacchito. «Le chiusure diventavano sempre più strette. Lui ascoltava le notizie e si rendeva conto che tutto peggiorava. ‘È dura’ mi diceva, e la cosa mi ha colpito perché non era certo una persona che si lasciasse scoraggiare facilmente. Penso che per lui non aveva più molto senso rimanere in casa anziani. Prima riceveva visite quasi quotidiane, ora pativa la solitudine e temeva che non ci fosse una fine, che per lui non ci fosse più un futuro vivibile. Non poteva più aggiungere vita ai giorni, ma solo giorni alla vita. Infine sono arrivate le complicazioni della malattia».

Ci siamo organizzati con telefonino e tablet. Stavamo in videochiamata il più a lungo possibile

Il contatto con la figlia, tuttavia, non viene mai meno. «Ci siamo organizzati con telefonino e tablet. Di fatto stavamo insieme in videochiamata fissa il più a lungo possibile. A volte, quando si addormentava, io leggevo un libro senza interrompere la videochiamata. Così potevo fargli comunque compagnia, intanto lui dormiva e quando si svegliava mi ritrovava lì, sullo schermo».

In panchina davanti alla casa

Simona ci confida che in quei giorni, appena poteva, andava a piazzarsi su una panchina davanti al ricovero e gli telefonava guardando il balcone della sua stanza. «A un certo punto, in una delle chiamate mi ha rivelato: ‘Simona, sono terminale e non ho paura di morire’».

A distanza di alcune settimane è difficile per lei superare la tristezza provata nella condizione di parente impossibilitata ad accompagnare come avrebbe voluto il suo caro nell’ultimo tratto di esistenza. Un dolore quasi indicibile che con ogni probabilità l’accomuna alle numerose persone che hanno perso un congiunto in casa anziani o all’ospedale nella prima fase del coronavirus. Una ferita aperta.

Anche perché dal momento in cui suo papà le confida di sentire vicinissima la morte, il Calvario si moltiplica per due. Da una parte c’è il padre, solo con se stesso, che avverte l’incombere della fine. Dall’altra la figlia che non può stargli accanto per via del regime di sicurezza imposto nei ricoveri durante la fase acuta della pandemia. «Anche su consiglio di alcuni amici, ho chiamato più volte per chiedere di poterlo incontrare fisicamente».

Il peggioramento

Intanto le condizioni di Aurelio peggiorano. L’uomo non è più in grado di scendere per vedere Simona. «Allora ho chiesto ripetutamente di poterlo visitare in camera sua e per finire mi è stato permesso di andare a trovarlo per mezz’ora in camera sua».

L’esperienza si rivela traumatica. «Sono salita da lui bardata dalla testa ai piedi: cuffia, mascherina, guanti, camice e copri scarpe... Vedendomi vestita in quel modo, ovviamente papà ha pensato di avere contratto il coronavirus e ci ha fatto capire quello che voleva: per favore, non intubatemi. L’ho rassicurato, non sarebbe successo. Ero accompagnata da un’altra persona: controllava che rispettassi la distanza sociale. Era molto gentile, gliene sono ancora grata. L’aspetto più penoso di quell’incontro era che lui allungava la mano e io non potevo toccarlo. È una scena che mi torna in mente molto spesso».

Il peggio, però, è arrivato dopo. «Uscita dalla stanza, mi hanno comunicato che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visitato mio papà. Avrei voluto rientrare subito nella stanza per abbracciarlo un’ultima volta».

L’ultimo incontro

Simona ci spiega che era perfettamente consapevole che la decisione di ridurre al minimo i contatti tra i parenti e gli anziani nelle case per la terza età era stata una scelta dolorosa per le stesse autorità cantonali. «Ma, d’altra parte sentivo il bisogno, direi quasi diritto, di vedere mio padre morente».

Per Aurelio non c’era malattia che potesse spegnere la sua gioia di vivere

Simona ottiene di vedere il congiunto un’ultima volta. «Ma ormai – osserva sconsolata – aveva gli occhi chiusi, il respiro inesistente. Avevano iniziato a dargli morfina e Dormicum da qualche giorno. Ho poi saputo che la notte del 21 aprile aveva dormito bene. La mattina successiva mi hanno chiamato verso le dieci meno un quarto. Era il momento. Quando sono arrivata non era più lucido, sembrava già... di Là. Naturalmente non potevo toccarlo. È arrivato il dottore che ne ha constatato il decesso».

Sono passati due mesi da allora. Simona continua a pensarci. «Mi consola il fatto che in questa esperienza ho incontrato anche persone molto umane tra quelle che si sono occupate di mio padre in casa anziani. Persone che si sono distinte per il cuore e che voglio ringraziare».

Come per numerosi altri congiunti di mamme, papà, zii o amici che sono spariti nei giorni della pandemia, la vita di Simona ripartirà. Forse, nel suo caso, lo farà onorando le parole di suo padre. «Non c’è Parkinson, (non c’è coronavirus, potremmo aggiungere) che possa spegnere la mia gioia di vivere».

Il contesto

La vicenda di Aurelio e Simona va inquadrata nel contesto delle misure di contenzione contro il coronavirus. Due giorni dopo la scomparsa di Aurelio, il Consigliere di stato Raffaele De Rosa aveva spiegato che sui 299 decessi registrati fino a quel giorno in Ticino, 136 erano avvenuti in casa anziani. E aggiungeva che su 68 istituti presenti sul territorio, 39 non avevano mai registrato casi COVID. Per le altre 29 strutture, in cinque casi con focolai si era deciso un monitoraggio del medico cantonale e in due di questi si erano dovuti intimare provvedimenti. Particolare risonanza ha avuto la vicenda dei 21 anziani morti di COVID-19 nella casa anziani di Sementina (per la cronaca: Aurelio non risiedeva lì) e le richieste di chiarimenti su quanto è successo si sono moltiplicate. .

La riapertura

Dover isolare le strutture per la terza età è stato «uno dei compiti più gravosi e tristi» di questi tempi, ha spiegato il medico cantonale Giorgio Merlani. In ogni caso dall’8 giugno, gli anziani ticinesi hanno iniziato un lento ritorno alla normalità. Possono rivedere figli, nipoti, fratelli. Ma le misure di protezione restano molto stringenti. Secondo le direttive, infatti, le visite agli ospiti dei ricoveri non potranno durare più di 45 minuti. Ma in strutture con un alto numero di degenti – segnalava una lettrice del Corriere nei giorni scorsi – «per permettere a ognuno di beneficiare dei momenti di visita, i minuti passano dagli attuali 15 a 20». Ci si può riabbracciare, ma indossando un camice, una mascherina e disinfettando le mani. Le uscite temporanee esterne dei residenti senza pernottamento sono ammesse, anche con famigliari (con diverse regole, come il divieto di usare i mezzi pubblici e di accedere ai locali pubblici). Permessi pure congedi e vacanze ma, rientrato in casa per anziani, il residente dovrà sottoporsi a un periodo di quarantena di 10 giorni.

La prudenza di Merlani

Intervistato il 6 giugno scorso dal nostro quotidiano, Merlani ha spiegato che «la riapertura delle strutture alle visite è un passo da compiere con la massima cautela e prudenza, in considerazione del fatto che in queste case vivono le persone più fragili fra la popolazione più vulnerabile, perciò anche più a rischio di decorso grave in caso di contagio da COVID-19. Le case per anziani sono luoghi di vita ad alta densità abitativa e quindi, al pari dei nuclei famigliari, maggiormente a rischio di possibile contagio. I visitatori che desiderano comprensibilmente riabbracciare i propri cari devono quindi agire con responsabilità non solo nei confronti dei propri congiunti ma di tutta la popolazione che vive ed opera all’interno della casa adottando le misure preventive».

«Il virus non è scomparso»

«Non bisogna dimenticare che il virus non è scomparso», ha spiegato nei giorni scorsi al giornale Eliano Catelli, presidente dell’Associazione dei direttori delle case per anziani della Svizzera italiana (ADiCASI). «Quindi è necessario prestare ancora molta attenzione alle norme di igiene e di distanziamento sociale. La direttiva del medico cantonale mette in guardia sui rischi correlati alla riapertura delle strutture per la terza età, dunque chi gestisce queste strutture deve poter fare affidamento sul senso di responsabilità di residenti, visitatori e personale. Le regole vanno applicate in modo minuzioso, altrimenti si rischia di vanificare questa riapertura».

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