L’intervista

Matteo Beltrami: «Per sopravvivere in quell’istituto mio padre parlava con un bruco»

L’autore del libro «Il mio nome era 125» racconta gli abusi su bambini perpetrati sessant’anni fa in un istituto del Bellinzonese
Una veduta dell’istituto Von Mentlen a Bellinzona negli anni ‘30. © dal sito http://www.istvonmentlen.ch/
Carlo Silini
25.05.2020 11:00

Immaginate un papà che racconta a suo figlio la storia di un bambino di sei anni che viene strappato alla madre e gettato in un istituto gestito da suore dove subisce ogni genere di abuso. Immaginate che questa storia sia una confessione, la descrizione di fatti realmente accaduti e accaduti a lui qui, in Ticino, sessant’anni fa. Tutto questo ha ispirato un libro. Ecco i fatti.

Ripartiamo dal racconto del padre. Molti anni dopo, il figlio diventato adulto prende carta e penna e scrive un volume per raccontare quell’antica vicenda di famiglia. Il libro si intitola Il mio nome era 125, è stato pubblicato qualche mese fa dalle edizioni Ulivo ed è ambientato a Bellinzona negli anni Cinquanta. Ne parliamo con l’autore, Matteo Beltrami (nella foto sopra).

«Parlo dell’infanzia di mio padre», spiega, «sono episodi che raccontano quello che è veramente accaduto e che io ho sempre ascoltato da quando ero piccolo. Ho preso visione maggiormente di questi episodi quando la tematica delle misure coercitive ha cominciato a delinearsi in termini storici anche sul nostro territorio. Sono riuscito a farla rientrare in un contesto più strutturato. Nel 2017 hanno aperto un servizio per l’ascolto delle vittime delle misure coercitive e ho pensato che come processo di elaborazione poteva essere interessante portarci mio padre. A distanza di 60 anni dai fatti accaduti, mi pareva importante confrontarsi con l’ente ufficiale, con coloro che all’epoca avevano collocato mio padre in una simile struttura».

C’era anche lei agli incontri?

«Sì, me l’ha chiesto mio padre. E lì è nato il progetto del libro. Ho visto che il bambino ferito era ancora molto presente. Mi ha colpito particolarmente una risposta a una domanda semplice che l’operatrice sociale aveva fatto a mio padre: come ha fatto a sopravvivere? Lui ha risposto con un’immagine molto poetica».

Cosa aveva risposto?

«Aveva detto: mi ricordo che sentivo certi profumi quando ci portavano fuori in processione, o quando i macellai entravano a vendere i loro prodotti. Mi rendevo conto, con quegli odori, che fuori c’era un mondo che mi aspettava».

È accaduto negli anni Cinquanta nella casa Von Mentlen a Bellinzona - Oggi i responsabili sono aperti e costruttivi

Quando inizia questa storia?

«Inizia a Colmegna, in Italia, durante la guerra quando nasce mia nonna. Da giovane decide di emigrare e trova lavoro come inserviente in una villa nel canton Soletta. Si innamora di un ragazzo benestante. Un amore segreto perché lei era cattolica e lui protestante e a quell’epoca era una differenza che non si poteva accettare. Rimane incinta e a quel punto viene separata dal suo amore. Dopo il parto torna a Colmegna e da lì si sposta a Bellinzona, dove trova un nuovo lavoro. Porta il figlio con sé anche perché trova il sostegno dei vicini di negozio e della mamma che va a trovarla ogni tanto. Ma essendo una ragazza madre, anche a seguito di varie pressioni, il bambino che aveva solo 6 anni le viene tolto e viene messo all’Istituto Von Mentlen di Bellinzona, dove rimane tra il 1954 e il 1959. Lì subisce varie forme di abuso».

Quel bambino era suo padre...

«Esatto. Ed è uscito dall’istituto nel ’59 per puro caso. Padre Callisto Caldelari va in visita all’istituto e durante la ricreazione vede questo bambino – all’epoca aveva 11 anni - che per gioco dice la Messa. Rimane colpito, lo prende e lo porta in convento a Faido dove si accoglievano i ragazzi che avevano la vocazione».

Come venivano trattati i ragazzini all’istituto Von Mentlen in quegli anni?

«Non c’era un personale formato in pedagogia. Le suore si distinguevano tra quelle che avevano una vocazione autentica o erano capaci di un approccio amorevole verso i ragazzi, e quelle che portavano avanti un’attitudine di frustrazione, di rabbia e di coercizione. Il risultato era che reprimevano la crescita dei ragazzini che erano stati loro affidati. Li ritenevano figli del disagio sociale: figli di genitori singoli, di padri che bevevano... E gli tagliavano le ali. Li facevano crescere, li accudivano, davano loro un tetto, ma smorzavano i loro sogni. Dal loro punto di vista meno spazio avevano nella società, meglio era per tutti».

Che abusi subivano?

«Punizioni corporali severe. Non solo spinte, sberle e castighi. Molti episodi sconfinavano nel penale».

Lasciando segni indelebili.

«Eppure, quando hanno aperto gli sportelli per le vittime, solo una minoranza di persone si è presentata. In un certo senso si è scoperto che l’intento del personale religioso dell’epoca è in parte riuscito, perchè in parecchi casi erano riusciti a mettere a tacere il vissuto di molte persone».

Non è evidente che un padre racconti a suo figlio di aver vissuto esperienze del genere...

«Non lo è. Da una parte alcuni avevano parlato moltissimo di quanto era loro successo, altri non hanno mai raccontato nulla. Lui ha iniziato quando io ero piccolo. Lo raccontava forse perché temeva di essere inadeguato perché non aveva avuto riferimenti educativi armoniosi. Così, almeno, me lo spiego io oggi».

La famiglia è quindi stato il luogo dove suo padre ha potuto elaborare quanto aveva vissuto.

«Sì, ma anche il luogo dove il bambino ferito era ancora presente e ha trovato asilo politico, una casa dove è stato accettato. Penso che sia meglio che il bambino ferito si faccia sentire, piuttosto che taccia. Altrimenti scomparirebbe».

Suo padre ha poi preso contatto con i compagni di allora?

«Non ufficialmente, ma negli incontri avvenuti in Governo o quando il Cantone si è scusato, ha potuto rivedere altri bambini che erano con lui all’epoca. Anche alle presentazioni del libro a cui ha partecipato, in alcuni casi sono arrivate persone che erano internate al Von Mentlen o in altre strutture negli stessi anni. Ho potuto vedere persone con più segni addosso rispetto a lui e persone che avevano avuto modo di elaborare prima di lui».

Lui ricordava che sentendo certi odori, quando li portavano in processione, capiva che fuori c’era un mondo che l’aspettava

Come ha reagito l’attuale direzione dell’istituto von Mentlen?

«In maniera aperta e costruttiva. C’è uno spartiacque che si può posizionare all’inizio degli anni Sessanta quando è arrivata suor Pascalina Hoffmann (1926-1985), formata in pedagogia che ha portato una rivoluzione all’istituto Von Mentlen. Ciò non toglie che l’istituto non avesse mai aperto in precedenza quella pagina di storia prima della pubblicazione del mio libro. Prima che venisse pubblicato, ho mandato le bozze all’attuale direzione dell’istituto e ho richiesto un contributo scritto da inserire nel libro, reputavo questa collaborazione fondamentale per l’intento del libro. Aggiungo che, essendo educatore, in passato avevo lavorato proprio all’Istituto Von Mentlen. Sono rimasti molto colpiti e mi hanno subito invitato. Anzi hanno concordato che la prima presentazione pubblica del volume avesse luogo all’istituto von Mentlen, come è effettivamente avvenuto lo scorso autunno. Oltre a questo, so che adesso hanno avviato una ricerca interna per fare luce sugli anni precedenti l’inizio degli anni ‘60».

I responsabili degli abusi però non ci sono più...

«Esatto. Ma il libro, pur raccontando gli abusi, non punta il dito contro le suore o il loro ordine religioso. Anche perché molte di loro erano ragazze di famiglie numerose che venivano mandate a fare i voti senza avere vocazione».

In suo padre ha percepito delle carenze causate da quanto aveva vissuto in quegli anni?

«Sicuramente qualcosa lo ha messo in discussione più del normale. Ha subito uno sradicamento violento quando aveva sei anni. Ha vissuto una grande labilità dei punti di riferimento. Ha rimosso molti aspetti di quei tempi. La sua arma è stata l’essere sempre riuscito a parlare di questa fragilità. È riuscito a trovare un proprio posto nel mondo. In lui vedo, nella sofferenza, molta poesia, un forte legame con la natura. A tratti ha dovuto scollegarsi con la realtà. Da piccolo comunicava con un bruco, per esempio. Insomma: non si può dimenticare, ma se ne può uscire».

DA SAPERE

Dall’inizio del Novecento fino al 1981 in Svizzera almeno 60. 000 persone il cui comportamento e stile di vita erano considerati poco conformi alle norme sociali, sono state collocate a forza in istituto sulla base di una decisione amministrativa, pur non avendo commesso alcun reato. Stando ai dati raccolti dalla Commissione peritale indipendente per gli internamenti amministrativi «i traumi subiti da queste persone, considerate pericolose per il loro stile di vita, non solo hanno rafforzato la loro esclusione sociale, ma in alcuni hanno avuto effetti deleteri anche sui discendenti».

Era sufficiente che una persona fosse definita «oziosa» o «dissoluta» perché fosse rinchiusa per anni in un istituto. Più a rischio erano i membri di gruppi socialmente discriminati, come gli Jenisch o i figli illegittimi.

Le scuse ufficiali

Nel 2013 Simonetta Sommaruga ha chiesto scusa a nome del Governo. In Ticino oltre 160 persone si sono rivolte ai servizi cantonali per ricevere sostegno. Ma il censimento del 1960 parlava di 750 «bimbi e bimbe collocati» nel cantone. Nella primavera di due anni fa l’allora presidente del Consiglio di Stato Manuele Bertoli aveva presentato le scuse ufficiali delle autorità del cantone.