«Meno risorse alla formazione? Effetti negativi a lungo termine»

«Il progetto del Consiglio federale per la promozione dell’educazione, della ricerca e dell’innovazione 2025-2028 è caratterizzato dalla preoccupazione per l’intero bilancio. Nel 2025 il settore dovrebbe disporre di risorse finanziarie inferiori rispetto all’anno precedente. Si rischia una riduzione dei servizi e la sospensione di progetti di interesse per il futuro dell’economia e della società svizzera».
Partiva da qui, lo scorso 22 aprile, la presa di posizione congiunta da parte del mondo accademico svizzero di fronte al messaggio ERI 2025-2028 della Confederazione, che prevede lo stanziamento di mezzi di promozione per un totale di 29,2 miliardi di franchi, ossia 1,3 miliardi in più rispetto al periodo precedente. Un aumento che, alla luce dei rincari previsti, equivale in realtà - secondo gli accademici - a un calo degli investimenti. Un tema di stretta attualità, che occuperà proprio oggi anche il Consiglio Nazionale, che cercherà possibili soluzioni per aumentare il credito. Noi ne abbiamo parlato con Martin Vetterli, presidente dell’EPFL in carica.
Presidente, il settore della formazione si scontra con i freni finanziari. Avete preso posizione. Ma che tipo di risposta vi aspettate dalla politica?
«Bisogna essere subito chiari: è la politica che stabilisce le priorità finanziarie della Confederazione. Non spetta quindi a me giudicare o criticare queste priorità. È una decisione politica. Posso capire che, data l’attuale situazione geopolitica, la Svizzera sia preoccupata per la sicurezza. Quindi capisco perfettamente i cambiamenti di priorità. E poi il freno all’indebitamento fa parte del DNA svizzero: lo rispetto completamente. Certo, negli anni migliori eravamo abituati a considerare l’istruzione, e con essa la ricerca, come una delle principali priorità della Confederazione. Ora, credo che quando si prendono decisioni di questo tipo, si debba anche guardare alle conseguenze. In questo senso, lo stesso EPFL ha lanciato una procedura di consultazione in relazione alla richiesta di introdurre una limitazione (a quota 3.000, ndr) dell’ammissione all’EPFL per studenti e studentesse con un diploma conseguito all’estero. E questo perché il numero di studenti è aumentato così tanto che non potremmo più garantire un’istruzione di qualità se il numero dovesse continuare a crescere in questo modo».
Conseguenze che portano a ulteriori conseguenze.
«Sì, l’effetto è che ci saranno meno persone con una formazione ingegneristica o scientifica per il mercato del lavoro svizzero. Insomma, sto semplicemente dicendo che le decisioni politiche che vengono prese hanno un effetto concreto. Non è una questione di lamentarsi perché si hanno meno fondi, ma perché tali misure porteranno a una limitazione del numero di laureati dei politecnici, una parte molto consistente dei quali tende a restare in Svizzera, anche tra gli stranieri, lavorando nell’industria svizzera in settori in cui c’è bisogno di talenti. E allora credo che sia questo il principale effetto che dobbiamo sottolineare, anche in termini di economia e società svizzera, ovvero che il numero di laureati disponibili per il mercato del lavoro svizzero non potrà continuare ad aumentare».
Ma non è paradossale, specie in questo preciso momento storico, porre un freno alla crescita nel settore della formazione?
«Ma è la politica a decidere. Io posso fornire i fatti, le cifre, ma ripeto che non spetta a me giudicare le priorità politiche. Poi, personalmente, penso che sia un pensiero a breve termine, perché la formazione e la ricerca rappresentano un investimento per il futuro. Vedevo proprio ieri alcune classifiche mondiali nel settore dell’intelligenza artificiale, e la Svizzera è molto ben posizionata. Ma non è successo per caso. È successo perché ci sono stati trent’anni di investimenti per assumere insegnanti, istituire programmi di formazione, avere il centro di calcolo a Lugano... Ora stiamo raccogliendo i frutti di quegli investimenti. E credo di poter dire che è responsabilità dei politici pensare anche a lungo termine. Abbiamo problemi finanziari a breve termine, d’accordo, ma facciamo attenzione che le soluzioni non abbiano effetti negativi a lungo termine per la Svizzera».
A suo avviso la politica e la società tutta si sono rese conto di questo rischio?
«Preferirei giocarmi un jolly e non rispondere. Ma sa, parlo spesso con i politici, e il loro orizzonte politico è di quattro anni. Lo capisco: è un lavoro. Loro hanno il loro lavoro, io ne ho un altro. E per me la ricerca ha un orizzonte temporale di dieci o anche vent’anni. Questo è il mio mestiere. Il mestiere di politico è più a breve termine, quindi si prendono decisioni diverse. Ma la Svizzera deve pensare al suo futuro. E non è così semplice. Il mondo è diventato più complicato. La geopolitica è più complicata. La tensione tra l’Occidente, America soprattutto, e l’Asia, Cina in primis, crescerà. L’unico modo per la Svizzera di continuare a posizionarsi è l’eccellenza. È l’unico ambito in cui la Svizzera ha tradizionalmente fatto la differenza, pur essendo un piccolo Paese privo di risorse naturali. È l’unica cosa che ha permesso alla Svizzera di rimettersi in piedi più volte, di ottenere risultati, di avere uno stile di vita superiore alla media europea. Ma nulla è successo per caso, nulla è caduto dal cielo. La Svizzera ha saputo sviluppare l’eccellenza. E non ci sono scorciatoie per farlo».
È possibile cercare nel privato quei fondi che vengono meno dal pubblico?
«Lo stiamo già facendo. Al di là dei fondi pubblici, un terzo del nostro budget arriva da borse di ricerca, ma un terzo anche da fonti diverse, da contratti con l’industria come da fonti filantropiche. Ci sono cattedre finanziate dalla filantropia, ce ne sono altre finanziate da industrie che vogliono sviluppare determinate aree, o mantenerle attive in un politecnico. Quindi sì, lo facciamo, ma dobbiamo sempre mantenere un equilibrio. La Svizzera ha una tradizione molto forte di servizio pubblico, e ciò che cosa significa? Che esiste un impegno, un contratto sociale tra la società e le istituzioni pubbliche, come per esempio i politecnici federali. E questo contratto sociale, sin qui, ha funzionato bene. Ho trascorso molto tempo negli Stati Uniti, e lì l’ho visto da vicino: è tutto più complicato, e c’è sempre il rischio di diventare troppo dipendenti. Penso al mio lavoro, a casi come quello - recente - della presidente di Harvard, costretta a lasciare il suo ruolo, messa sotto pressione dai finanziatori stessi dell’istituzione. Insomma, non sono sicuro che vogliamo davvero arrivare a questo punto. Detto questo, facciamo i nostri sforzi per raccogliere nuovi fondi, fondi dall’industria e dalla filantropia, ma non dobbiamo esagerare. Penso che negli Stati Uniti si siano spinti troppo oltre».


Sembra voler andare oltre. C’è qualcosa che vuole aggiungere?
«Quando una cosa funziona, non capisci magari perché funziona, ma una volta che l’hai rotta, dici: “D’accordo, in effetti funzionava così bene perché c’era questo o quest’altro fattore”. Ecco, per esempio il contratto sociale. Sono il primo a rimanere impressionato di fronte ai ranking mondiali. Guardiamo alla Svizzera, e vediamo che riesce sempre a piazzarsi tra le prime università del mondo con i suoi due politecnici federali. Ed è incredibile. C’è qualcosa che stiamo facendo bene, che funziona».
In questo senso, lei ha parlato di una possibile misura: restringere l’accesso agli studenti stranieri. E le Camere riflettono su possibili aumenti delle tasse d’entrata, sempre per gli studenti stranieri. Eppure i ranking si devono anche al grado di internazionalità raggiunto. Non è così?
«Questa è una discussione importante. Tutto sta nel distinguere se consideriamo gli studenti come fonti di talento o come fonti di denaro. Il modello svizzero prevede che l’istruzione sia a disposizione di tutti, quindi con costi accessibili, perché investiamo nei giovani che hanno talento e che andranno a rinvigorire la forza lavoro del Paese, pagando le tasse in Svizzera e generando, di fatto, un circolo virtuoso. Negli Stati Uniti accade l’esatto contrario. L’istruzione è molto costosa. Quindi gli studenti pagano, contraggono debiti con le banche e poi passano il resto della loro vita a cercare di ripagarli. Ma questo sistema è diventato fonte di problemi economici in serie. Quindi abbiamo due modelli completamente diversi. Noi abbiamo un sistema che funziona e che ha dato risultati. Vogliamo importarne uno che non funziona? La sola idea mi sorprende. Ho vissuto, lì. Ma non volevo che i miei figli crescessero in quel sistema. E allora sono tornato in Svizzera. Ma come può vedere, è una discussione che mi coinvolge molto, anche emotivamente. Gli studenti non sono fonti di denaro, ma fonti di talento. Per me questo deve essere essenziale. Ma c’è dell’altro».
Che cosa?
«Be’, prendiamo uno studente francese, e ne abbiamo diversi all’EPFL. Ha ricevuto un’istruzione in Francia per una dozzina di anni, un’istruzione finanziata dai contribuenti francesi. Poi, a un certo punto, viene selezionato dall’EPFL. Perché prendiamo i migliori profili, va sottolineato. Ecco, dopo dodici anni di formazione pagata dalla Francia, noi prendiamo i migliori, li formiamo per tre o cinque anni, e poi li cediamo all’industria svizzera. In media, restano a lavorare in Svizzera per oltre dieci anni. E be’, non mi sembra un cattivo affare, economicamente parlando. Non è un fatto di cui vantarsi, di per sé, da un punto di vista morale, ma dico che anche dal punto di vista economico ha un senso. E comunque, anche aumentare le tasse di iscrizione non risolverebbe i problemi di bilancio».
Lei si prepara a lasciare la presidenza a fine anno a Anna Fontcuberta i Morral, ma che cosa significa essere presidente di un politecnico federale? Quanto c’è di politico e quanto di accademico?
«Ci sono due aspetti. Da una parte il lavoro nel campus, che implica una totale disponibilità. Un esempio? Due settimane fa ero nei Paesi Bassi, quando ho ricevuto una email: c’è un’occupazione in corso di studenti pro-palestinesi. Abbiamo subito deciso che cosa fare e mi sono precipitato all’aeroporto. Ed è un aspetto che mi piace: amo il campus, sono un accademico. E poi c’è un lavoro fuori dal campus, che implica interviste (sorride, ndr) e incontri in Parlamento, con industriali, filantropi e via dicendo. C’è, in realtà, un terzo aspetto, quello meno visibile, ed è relativo alla necessità di sviluppare la visione della scuola, di pensare a dove vediamo la scuola tra dieci o più anni».
Ho l’impressione che le mancherà, tutto ciò.
«Guardi, è un lavoro da sette giorni su sette e da 24 ore su 24. Per me è il lavoro più bello del mondo, ma è anche vero che a un certo punto bisogna cedere il passo. Il prossimo anno, nel 2025, sarò ancora un professore. E poi ho un progetto: andare a fare visita ai 76 studenti che hanno fatto il dottorato con me. Si trovano sparsi in tutto il mondo, e quindi sarà un lungo viaggio».