Milionari e profughi: una vita in trasferta

La stagione delle coppe europee di calcio è appena arrivata al giro di boa con i suoi primi verdetti agonistici (non privi di qualche sorpresa). Gli osservatori più attenti hanno potuto gettare un ampio sguardo sul vecchio continente e le sue problematiche, che sovente finiscono per riflettersi – se non proprio all’interno – attorno ai terreni di gioco. Parliamo di fenomeni come l’hooliganismo che nonostante gli sforzi (veri o presunti) compiuti ha confermato di essere una piaga lungi dall’essere debellata; delle mai dome frizioni etniche, religiose e politiche fra Stati che si riverberano negli stadi, in netta contraddizione con lo spirito dell’ellenica ekecheirìa (la tregua olimpica) che vorrebbe lo sport come momento di pacificazione. Ma anche di situazioni strane se non addirittura drammatiche come quelle di squadre calcistiche che, a causa dei conflitti in atto nei rispettivi Paesi, si trovano a vivere una condizione da profughi. Milionari e privilegiati finché si vuole, ma comunque profughi. Ecco le loro storie.
SHAKHTAR DONETSK:
I «MINATORI» SENZA CASA

Sono passati più di quattro anni dall’ultima volta alla Donbass Arena. La casa dello Shakhtar Donetsk. Schiacciato dal conflitto fra i separatisti filorussi e l’Ucraina, infatti, il club non può più giocare nella sua città. Kiev, Leopoli, Kharkiv, ancora Kiev per la recente sfida di Champions League contro il Lione. Sono i nuovi teatri dei «Minatori». «Stiamo solo aspettando il giorno in cui la squadra cambierà nome», dice Oleg, tifoso carico di nostalgia. «Difficilmente lo Shakhtar tornerà a Donetsk». Lo scorso maggio un raggio di luce si era infilato fra le nubi. «Il terreno di gioco della Donbass Arena è stato riparato» recitavano le agenzie stampa. Vuoi vedere che lo Shakhtar – finalmente – può interrompere l’esilio? Risposta: no. La formazione del discusso oligarca Rinat Akhmetov è ancora fuori sede. Di più, il recente sequestro di tre navi ucraine da parte russa nello stretto di Kerch – fra il Mar Nero e il Mare di Azov – ha peggiorato ulteriormente la situazione. Ucraina e Russia sono ai minimi storici. La regione del Donbass, Lugansk e la Crimea sono l’emblema dell’instabilità. Il governo ucraino ha risposto a quest’ultima crisi instaurando la legge marziale nelle regioni di frontiera con la Russia. Fra le città coinvolte c’è anche Kharkiv ed è per questo che lo Shakhtar – mercoledì – ha giocato a Kiev. «Nessuna partita UEFA può svolgersi in territori nei quali vige la legge marziale» ha spiegato Giorgio Marchetti, il responsabile delle competizioni in seno al governo del calcio europeo. Un esilio nell’esilio. Pazzesco.

Nel mezzo di una spaccatura
L’Ucraina è spaccata. Una parte del Paese volge lo sguardo all’Europa, l’altra alla Russia. In mezzo c’è lo Shakhtar. Un tempo simbolo di Donetsk e del Donbass – dove è stata proclamata una Repubblica filorussa – oggi è una specie di carrozzone sempre in movimento. Sebbene disponga ancora di mezzi economici importanti, lo Shakhtar si è dovuto adattare. Rivedendo il budget ad esempio. «Colpa della guerra» afferma Evgheni Starov, giornalista sportivo a Kiev. «Il proprietario del club, un uomo d’affari ricchissimo, ha perso una parte del suo impero a causa del conflitto. Fabbriche e miniere in particolare. Lo Shakhtar di conseguenza acquista meno giocatori d’importazione e punta sui giovani ucraini».
Lo specchio della sofferenza
La storia dello Shakhtar merita di essere raccontata. Banalmente, il destino di questa squadra è quello di molti ucraini. Con lo scoppio del conflitto svariate persone hanno dovuto abbandonare l’est del Paese. Lasciandosi alle spalle casa, lavoro, affetti. Alcuni, non potendo contare su amici o parenti, si sono ritrovati dall’oggi al domani in mezzo alla strada. I tifosi, dicevamo, hanno perso ogni speranza. Eppure uno spiraglio si trova sempre. «Kiev ha accolto una volta ancora una nostra partita» le parole del tecnico Paulo Fonseca. «Significa che attraverso il calcio possiamo mostrare il volto di un’Ucraina unita. O quantomeno di un’Ucraina che vuole ritrovare la pace e la solidarietà».
La nostalgia di casa
Le difficoltà sono anche sportive. Per dirla con l’allenatore dello Shakhtar, «è dura dover giocare così lontano da casa». Se Kharkiv, la sede «abituale» per il campionato dal 2017, dista poco più di 300 chilometri da Donetsk, il discorso cambia con Kiev. La capitale ucraina è lontana 700 chilometri. «Ringraziamo i nostri rivali, la Dinamo, per l’ospitalità» spiega ancora il portoghese Fonseca, in carica dal 2016. «Sappiamo che per alcuni tifosi il fatto di giocare a Kiev è difficile da accettare. Lo è anche per noi. Ma la sfida contro il Lione a mio avviso è stata un chiaro messaggio di pace».

Il ruolo dell’oligarca
Lo Shakhtar è una delle tante vittime di questa guerra assurda. Un club rifugiatosi altrove. In stadi e città differenti. A ovest, al nord e al centro del Paese. Un simbolo del Donbass che tuttavia è stato marchiato come traditore dalle autorità separatiste della Repubblica popolare di Donetsk. Una dicotomia causata – più o meno inconsciamente – dal patron Rinat Akhmetov. Oligarca senza scrupoli, contribuì all’ascesa del filorusso Viktor Yanukovych fino alla presidenza dell’Ucraina salvo poi mollarlo dopo la deposizione (gli affari sono affari del resto). Ironia della sorte, le peregrinazioni dello Shakhtar cominciarono proprio con la caduta di Yanukovych. Akhmetov è in equilibrio – precario – fra due fuochi. Da una parte è accusato di sostenere i separatisti: l’uomo d’affari (secondo Forbes il suo patrimonio personale è di 5,5 miliardi di dollari) è impegnato in prima persona negli aiuti umanitari alla popolazione di Donetsk, mentre la squadra a suo tempo si era rifiutata di partecipare ad alcune celebrazioni in favore dell’esercito ucraino. Dall’altra i filorussi lo vedono, appunto, come un traditore. Le autorità della Repubblica separatista hanno confiscato ad Akhmetov diverse proprietà nell’area del Donbass, giurandogli perfino che lo Shakhtar non rimetterà mai più piede in città.
Cambio di nome in vista?
E allora torna d’attualità la possibilità che il club, dopo essere stato costretto a lasciare il suo stadio, cambi nome. Se i primi anni in esilio furono particolarmente duri – l’egemonia in campionato che durava da cinque stagioni venne interrotta dalla Dinamo Kiev, vincitrice nel 2015 e nel 2016 – le cose adesso sono tornate a girare. Ci saranno anche meno soldi nelle casse del club, ciononostante mister Fonseca ha trovato la quadratura del cerchio. Tant’è che il prossimo maggio lo Shakhtar molto probabilmente festeggerà il terzo titolo nazionale consecutivo, il dodicesimo da quando esiste la Premier League ucraina. Lo champagne si mischierà un’altra volta alle lacrime di gioia. E a quelle, amare, legate ad un esilio tanto surreale quanto drammaticamente vero.
QARABAG: SE L’ESILIO DORATO
SI TRASFORMA IN ABITUDINE

Il Nagorno Karabakh è un fazzoletto di terra stretto fra due ex repubbliche sovietiche. L’Armenia e l’Azerbaigian. Dal 1991 è una regione a sé stante, un’autoproclamata repubblica (l’Artsakh) il cui status politico è tuttora irrisolto. Sono passati più di trent’anni dallo scoppio di una guerra. Circa 30 mila persone hanno perso la vita. E la gente continua a morire, nonostante nel 1994 sia stato dichiarato un cessate il fuoco.
La stampa lo ha definito un conflitto congelato. Un’altra Crimea. Una disputa etnica e territoriale, con la componente armena decisa ad abbandonare la giurisdizione azera per abbracciare l’Armenia e in un secondo momento l’indipendenza. Il territorio è tutt’oggi conteso. E il rischio che la situazione degeneri è reale. Del resto, questa è una delle zone in cui gli interessi della Russia si scontrano con quelli del cosiddetto Occidente.
Anche il calcio ha subito storture evidenti a causa di queste tensioni. La più nota? Il Qarabag Futbol Klubu, costretto ad abbandonare la sua città natale – Agdam, nel frattempo ridotta in macerie – e a rifugiarsi nella capitale dell’Azerbaigian. Baku, a quasi 300 chilometri di distanza. La decisione fu presa dai vertici societari nel 1993, con l’arrivo delle forze armate armene. Una diaspora in tutto e per tutto. «Eppure quella regione è casa nostra» fa notare Elsevar Mammadov, giornalista di «Qafqaz Info» e suiveur delle vicende del Qarabag. «Gli anni Novanta furono particolarmente duri per la gente di Agdam. Molti di noi adesso vivono a Baku o in altre zone del Paese».
Il pallone ha versato il suo contributo di sangue al conflitto. Allahverdi Bagirov, a suo tempo allenatore della squadra, salutò il Qarabag per indossare l’elmetto. «Andò in guerra perché amava il suo Paese e le persone di Agdam». Morì nel 1992 assieme al suo autista: i due incapparono in una mina anticarro. «La sua figura e le sue gesta vengono ricordate ad ogni partita del Qarabag. Allo stadio c’è sempre una sua immagine».

La domanda, dalla risposta scontata, è sempre quella: la squadra e – di riflesso – il popolo di Agdam riusciranno mai a tornare a casa? «Nessuno in Azerbaigian riconosce il Nagorno Karabakh come una repubblica a sé stante» prosegue Mammadov. «Quella regione è azera. Lo sa anche il resto del mondo. L’Armenia è un invasore. Detto ciò, penso e spero che un giorno quella terra torni al legittimo proprietario. E che il Qarabag possa giocare di nuovo nel suo stadio».
Con il passare degli anni – e con l’inizio di un lungo ciclo fatto di successi – l’intero Azerbaigian si è affezionato al Qarabag. «Il grosso dei tifosi proviene da Agdam e Barda, città non molto lontana dalla zona contesa. Ma adesso la squadra è tifata parecchio anche a Baku». A fare da collante una figura carismatica, guarda caso un altro allenatore: Gurban Gurbanov. «È una leggenda, sportivamente parlando». In sella dal 2008, ha conquistato cinque campionati e quattro edizioni della Coppa nazionale. Non finisce qui: è il tecnico azero che vanta il maggior numero di vittorie nelle competizioni UEFA (35).
E chissà, forse l’esilio forzato convinse il conglomerato Azersun – attivo nella trasformazione agroalimentare – ad investire pesantemente nel club fino ad assumerne il controllo. I soldi iniettati nella società a cominciare dal 2001 hanno fatto la differenza in un campionato come quello azero. «In effetti il Qarabag è di gran lunga la squadra più ricca del Paese» fa notare Elsevar. «Il budget si aggira sui 15 milioni di dollari per stagione. Una cifra che in Azerbaigian ti permette di acquistare i migliori giocatori. Gli altri? La società che più si avvicina a simili vette, il Neftchi, ha a disposizione 8 milioni all’anno. Ma non è solo questione di Azersun. Il Qarabag ha creato un circolo virtuoso partecipando alle coppe europee e, quindi, guadagnando diversi premi».

Nella rosa attuale figurano moltissimi stranieri. Un islandese, un bulgaro, due spagnoli, un brasiliano, un francese, un croato, un albanese, un congolese, un polacco, un haitiano e uno svizzero, Innocent Emeghara («È un talento ma sta segnando poco e non riesce a mostrare tutto il suo potenziale»). Trova ancora spazio – in questa multinazionale calcistica – la storia particolare del Qarabag? O nello spogliatoio è oramai diventato un ricordo lontano cui nessuno bada più? «Ogni singolo elemento del club, giocatori d’importazione compresi dunque, è profondamente legato alle sofferenze patite dal Qarabag. Nessun membro della rosa attuale ovviamente ha giocato ad Agdam, nello stadio Imaret. Ma il tema è molto discusso fra i giocatori. E chi scende in campo condivide il sogno dei tifosi: tornare dove tutto è cominciato».
La superiorità tecnica del Qarabag – complice l’uso massiccio di calciatori stranieri – ha avuto quale effetto nefasto l’indebolimento della squadra nazionale. Quell’Azerbaigian che nel 1996, fra l’altro, sconfisse la Svizzera. «Diciamo che c’è una sorta di cortocircuito» conclude Elsevar. «È difficile capire se la nazionale è debole perché il Qarabag è pieno zeppo di stranieri oppure se il Qarabag è costretto a pescare all’estero perché la formazione, nel nostro Paese, è lacunosa. La Federcalcio azera investe poco o nulla nella crescita di nuove leve e questo è un problema non indifferente per la selezione maggiore. I giocatori di talento mancano come il pane».
Di sicuro, a questa squadra divenuta superpotenza manca la terra sotto ai piedi. Baku è come una seconda casa oramai. Ma assomiglia ad una stanza d’albergo: confortevole finché vuoi, eppure spoglia e senza il tipico calore domestico. «È che il nostro sogno al momento è difficile da realizzare. Anche perché il resto del mondo se ne frega».
CONIFA: LA FEDERAZIONE
DEGLI STATI CHE NON ESISTONO

I casi dello Shakhtar Donetsk e del Qarabag sono i più eclatanti di un limbo sportivo-politico molto più ampio che, solo rimanendo nel pianeta calcio, presenta parecchie situazioni curiose. Alle quali da un quinquennio sta almeno parzialmente cercando di porre rimedio la ConIFA (Confederation of Independent Football Associations), una federazione nata in Svezia nel 2013 con lo scopo di «costruire relazioni tra i popoli, le nazioni, le minoranze e le regioni isolate in tutto il mondo attraverso l’amicizia, la cultura e la gioia di giocare a calcio». La ConIFA, in pratica, organizza manifestazioni riservate in egual misura a minuscole entità politico amministrative che operano al di fuori dell’egida della Federazione calcistica mondiale (FIFA) come il Principato di Monaco, il minuscolo arcipelago australe delle Kiribati e regioni amministrative autonome come la Groenlandia e l’Isola di Man, ma anche a Stati che non godono di ufficiale riconoscimento o che sono riconosciuti solo da pochi altri Paesi (Nagorno Karabakh, Ossezia, Tibet, Cipro del Nord...) fino a rappresentanze di minoranze etniche e/o culturali che spaziano dall’Occitania al Kurdistan, dalla Lapponia al Qubec, dalla rumena Terra dei Siculi alle più «nostrane» Padania e Rezia (i territori alpini e subalpini compresi fra Alto Adige, la Baviera meridionale, i Grigioni e l’Austria occidentale).

Nonostante alcune di queste entità geografiche o etniche possano sembrare strane, non sono frutto della fantasia o della goliardia di pochi, così come «non basta dichiarare nazione indipendente il proprio bar di fiducia per entrare a far parte della ConIFA», si spiega nel sito della federazione. Le adesioni sono infatti decise «in base al voto dei membri esistenti e in genere devono essere Stati semi autonomi o minoranze riconosciute dalle organizzazioni non governative». Il tutto al di fuori di qualsiasi considerazione di carattere politico. «ConIFA è un progetto di pace», spiega il presidente della federazione, il lappone Per-Anders Bild. «Le nostre squadre rappresentano circa 330 milioni di persone in ogni continente: popoli e minoranze che diversamente non hanno la possibilità di affermare il loro senso di identità e appartenenza. E che grazie al calcio ora possono farlo. Lo sport è un’occasione di riscatto che dà la possibilità di portare all’attenzione del mondo un popolo o l’idea che esso rappresenta». Dalla sua fondazione, la ConIFA ha già organizzato due campionati europei (svoltisi nel 2015 in Romania e nel 2017 a Cipro del Nord e vinti in entrambi i casi dalla Padania) e ben tre mondiali. Il primo, disputato nel 2014 in Lapponia, è stato vinto dalla Contea di Nizza (ex possedimento dei Savoia poi annesso da Napoleone alla Francia) che ha battuto in finale l’Isola di Man. Nel 2016 la vittoria è andata ai padroni di casa dell’Abkhazia sugli indiani del Punjab mentre nell’edizione disputata lo scorso giugno a Londra la rappresentativa della Transcarpazia (minoranza ungherese dell’ovest Ucraina) ha superato in finale ai rigori Cipro del Nord.