Missili, mercati e noli che salgono

La crisi israelo-iraniana scoppia in coincidenza con la pubblicazione del rapporto dell’International Energy Agency (IEA) sulle prospettive del mercato petrolifero, che indica una crescita costante della domanda di greggio almeno fino al 2030 – con un aumento di 5 milioni di barili giornalieri, cioè un totale di 114,7 milioni di barili – con un picco previsto in Cina, massimo importatore globale, per il 2027. L’analisi dell’IEA evidenzia una buona situazione di offerta, sottolineando tuttavia i rischi legati alle crisi geopolitiche ed alle loro evoluzioni; ed ora la nuova area di crisi oscura ulteriormente il panorama.
Molti scenari
Si è detto molto della possibile chiusura dello Stretto di Hormuz da parte di Teheran, ma la mossa che, secondo J.P. Morgan, porterebbe il prezzo del greggio ben oltre i 100 dollari al barile, sembra al momento poco probabile. Invece, attacchi da parte di imbarcazioni veloci, di droni, posa di mine ed altre manovre di disturbo rappresentano una possibilità più concreta. Da considerare è pure la possibile ripresa delle azioni da parte degli Houthi nella porta del Mar Rosso, lo Stretto di Bab el-Mandeb. Da Hormuz passano 21 milioni di barili al giorno, il 34% di tutto il petrolio trasportato via mare. Hormuz fu chiuso neppure nella guerra Iran-Iraq 1980-1988, denominata «Tanker War» proprio per i timori legati al movimento delle petroliere. Problemi seri si avrebbero in caso di attacchi all’importante porto di Bandar e-Abbas, adiacente ad Hormuz, ai relativi depositi e terminali. A disporre di alternative rispetto al transito delle petroliere attraverso lo Stretto di Hormuz sono Arabia Saudita, Emirati e lo stesso Iran. Il colosso petrolifero Saudi Aramco opera un oleodotto East-West in grado di trasportare 7 milioni di barili al giorno verso il Mar Rosso. Gli Emirati, invece, collegano i campi petroliferi onshore con il terminale di Fujairah sul Golfo di Oman, con una portata che in caso di necessità può raggiungere i 3,5 milioni di barili giornalieri. L’Iran, da parte sua, ha in costruzione un oleodotto verso il porto di Bandar e-Jask, circa 100 miglia a Sud-Est di Hormuz, ed un altro verso il terminale di Neka sul Mar Caspio. Ma tutto ciò non basterebbe.
La rotta di Suez
Ma dallo Stretto non passano solo enormi quantità di petrolio. Infatti, non va trascurato il ruolo dello Stretto per il movimento di container. Il terminale di Khor Fakkan, nell’Emirato di Shariah, e quello di Jebel Ali, a Dubai, non troppo lontano, sono hub primari per il movimento containerizzato di merci anche verso l’Europa. Da Hormuz passa inoltre il 30% di gas naturale dal Qatar, il 18% di prodotti chimici, oltre a materiali e prodotti di ogni genere. In questo scenario fragile, non va inoltre dimenticato che la rotta di Suez è ancora abbandonata da molte compagnie e vede un -60% di transiti complessivi, con un pesante -90% per le navi portacontainer attraverso il canale, nonostante lo sconto del 15% concesso dall’Egitto, che tuttavia non compensa la minaccia degli attacchi Houthi alla porta meridionale del Mar Rosso. Anche su questa rotta i maggiori costi, i tempi più lunghi e le difficoltà varie determinano sovente problemi lungo la filiera logistica fino alle aziende clienti.
Una situazione fragile
Il tema della sicurezza marittima è diventato ancora una volta prioritario, tanto che J.P. Morgan ha costituito un Global Trade Chockepoint Monitor. Agli armatori si consigliano misure di difesa, eventuale revisione delle rotte, segnalazioni di ogni azione sospetta. Sulla situazione di questi «mari caldi» abbiamo contattato Ignazio Messina, amministratore delegato della compagnia di navigazione omonima di Genova che da decenni opera nell’area. «Per il momento non vi sono conseguenze rilevanti. Vi sono state solo interferenze nei sistemi GPS, che possono creare problemi in aree di bassi fondali come quelli del Mar Rosso. Abbiamo adottato tutte le misure in favore degli equipaggi, godiamo della scorta delle unità militari in grado di intercettare i droni, anche se talvolta ciò comporta lunghi tempi di attesa della scorta e quindi costi elevati». Ma non è tutto. Come spiega ancora l’armatore, «bisogna aggiungere gli elevatissimi costi assicurativi, perché la zona ad alto rischio, che per il Mar Rosso e il Golfo di Aden riguardava solo la zona intorno al Bab el-Mandeb, soggetta agli attacchi Houthi, ora si estende fino all’altezza di Jeddah. In certi momenti i premi assicurativi sono stati addirittura più cari del passaggio del Canale di Suez». Per quanto riguarda il mercato dei noli, le nuove rotte fra Asia e Mediterraneo, con la circumnavigazione dell’Africa, «hanno determinato un adeguamento, dopo un forte rialzo iniziale», rileva Messina. «Vi è un maggior numero di navi e quindi di capacità di trasporto. Non accade ciò che avvenne all’indomani del Covid, con l’esplosione della domanda di merci. L’aspetto paradossale è che la rotta fra Asia ed Europa doppiando il Capo di Buona Speranza è sì più lunga che attraverso il Mar Rosso, ma in proporzione molto meno che per le navi che escono dal Golfo o dal Mar Rosso stesso e doppiano il Capo, ed i noli non sono aumentati proporzionalmente». Da Hormuz all’Asia invece l’aumento dei noli è ora significativo per l’elemento rischio. «Al momento non abbiamo ancora aumenti forti di costi, se non per le misure precauzionali da adottare. Quello che preoccupa e ciò che potrebbe cambiare con l’intervento diretto degli Stati Uniti nella regione».
Proprio la combinazione di possibili interruzioni di traffico e rifornimenti, aumento del petrolio, dei costi logistici e di assicurazione per navi, merci ed equipaggi, è stato definito da Mohamed El-Erian, celebre accademico USA e capo del team di consulenza economica del Gruppo Allianz, come una fonte di stagflazione, cioè rallentamento congiunturale combinato con una maggiore inflazione, in una fase in cui peraltro tali tendenze già si manifestano.