Clima

Anche al mare serve un governo

Si chiude oggi a Brest il «One Ocean Summit» organizzato dalla Francia nell’ambito del semestre di presidenza dell’Unione europea – In discussione temi strategici quali la protezione della biodiversità, le possibili regole sulle miniere di profondità e l’eliminazione delle plastiche
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Ferdinando Cotugno
11.02.2022 06:00

Chi governa il mare? È questa la domanda di fondo sulla quale si discute in questi giorni a One Ocean Summit, l’evento voluto dal presidente francese Emmanuel Macron nel porto di Brest e organizzato nell’àmbito del semestre di presidenza dell’Unione europea.

I cambiamenti climatici e la biodiversità hanno da decenni le loro conferenze ONU dedicate, come la recente COP26 di Glasgow, chiamate a coordinare gli sforzi globali di Paesi e imprese per uno sviluppo sostenibile. Per gli oceani non c’è ancora niente di simile, nonostante l’enormità delle questioni aperte: l’inquinamento da plastiche, la pesca illegale o intensiva, le preoccupanti prospettive dell’esplorazione mineraria di profondità.

«Il vero tema del summit è il più complicato di tutti: gettare le basi per una nuova governance - dice Francesca Santoro, coordinatrice della Commissione oceanografica intergovernativa dell’UNESCO -. Ci sono in questo momento troppe leggi e troppi settori in sovrapposizione. Le parti che riguardano la pesca, il turismo, la navigazione, l’ambiente sono spesso in contrapposizione. Non c’è mai chiarezza su chi debba prendere le decisioni nello spazio marittimo, la quantità di norme in contraddizione è impressionante. In questo momento le zone fuori dalla legislazione nazionale, oltre le 200 miglia nautiche dalla costa, sono terra di nessuno». La Francia ha scelto per sé il ruolo di leadership nel tentativo di governare gli ingovernabili oceani. Di fatto è la seconda potenza marittima globale: grazie ai territori d’oltremare le sue zone esclusive sono le seconde al mondo dopo quelle degli Stati Uniti.

Scavare i fondali

Ci sono due àmbiti nei quali diventa molto chiaro il caos della giurisprudenza marittima che a Brest si vorrebbe sbrogliare. Il primo è la protezione della biodiversità e il contributo degli oceani alla lotta alla crisi climatica. L’impegno della comunità internazionale è proteggere il 30% della superficie terrestre entro il 2030: se sulla terraferma siamo intorno al 16%, per i delicatissimi oceani la quota scende al 7,7%. «Il problema è che tutte le zone protette sono all’interno delle acque territoriali dei singoli Paesi, mentre ci si sta occupando troppo poco di quelle internazionali». È anche il motivo per cui l’oceano finisce in un angolo cieco quando si tratta di assorbimento di carbonio. Anche nell’ultima COP26 se ne è parlato poco in proporzione alla sua importanza, visto che il 25% delle emissioni di gas serra è assorbito nel mare.

Il secondo tema chiave di governance discusso a Brest è uno dei più problematici del summit: il deep sea mining, la trasformazione dei fondali oceanici in miniere di profondità. L’elettrificazione ha un enorme bisogno di metalli, che stanno iniziando a scarseggiare o sono all’interno di filiere insostenibili e instabili: litio, rame, nichel, cobalto. Una delle prospettive è prenderli dai fondali, che tra i 4 mila e i 5 mila metri ne sono ricchissimi (soprattutto il Pacifico orientale, dove si trovano migliaia di miliardi di noduli polimetallici, gemme composte da molti dei materiali critici della transizione). In questo momento siamo ancora nella fase dell’esplorazione, ma la domanda è: chi governa questo settore? «Gli studi dicono che se vai a scavare il fondale marino alteri gli ecosistemi, con enormi pericoli per gli equilibri ecologici della Terra. È uno di quegli argomenti sui quali dovrebbe valere un principio di precauzione», dice Santoro, che è pure d’accordo con i 400 scienziati che pochi mesi fa hanno chiesto una moratoria internazionale immediata. Il punto però è: chi ha diritto a far valere questo principio di precauzione in acque internazionali? La posizione della Francia è controversa, perché Macron si è finora opposto a qualsiasi tipo di moratoria.

L’incontro dei capi di Stato

Le organizzazioni ambientaliste europee e francesi si sono schierate contro questa diplomazia marittima tendente al bluewashing, versione oceanica del greenwashing, cioè ripulire l’immagine di aziende e governi con azioni che aggiungono poco alla sostenibilità delle loro pratiche. Con un intervento su «Le Monde» hanno esplicitato le loro richieste, dalla moratoria del deep sea mining alla protezione della biodiversità.

Il summit si chiude oggi con l’incontro dei capi di Stato. Il timore di molti osservatori è che rimanga un grande spot elettorale a due mesi dal voto di Parigi. «Il recupero e la rigenerazione degli ecosistemi marini hanno bisogno di investimenti privati, la cosiddetta finanza blu sostenibile, che richiede regole e parametri certi», incalza Santoro. Secondo il World Economic Forum, l’economia degli oceani arriverà a valere 3 mila miliardi di dollari entro il 2030: il doppio rispetto al 2010. Un altro tema chiave per misurare la credibilità degli sforzi globali per gli oceani è la lotta all’inquinamento da plastica. «Per me ogni campagna promossa per ripulire gli oceani dalla plastica è bluewashing: non ha senso da un punto di vista scientifico, sono un favore alla lobby della plastica. Il tema non è pulire gli oceani dalla plastica, ma non farcela arrivare», conclude Santoro.

Le organizzazioni ambientaliste spingono verso un nuovo trattato internazionale che impegni tutti i Paesi sul modello dell’accordo di Parigi. L’appuntamento chiave per misurare la credibilità e le leadership sarà a New York, il 7 marzo, con la Conferenza intergovernativa dell’ONU sulla protezione della biodiversità oltre le giurisdizioni nazionali. La domanda su chi decide per gli oceani non potrà essere elusa ancora a lungo.