L'intervista

«Avvelenata perché reporter, sogno il ritorno nella mia Russia»

Già giornalista di Novaya Gazeta, sabato Elena Kostyuchenko sarà protagonista di Endorfine a Lugano: minacciata di morte, ha dovuto abbandonare casa e lavoro ma non ha paura di raccontarci la sua storia
Giacomo Butti
13.09.2023 06:00

Fra censura e guerra, andare a caccia di verità è molto pericoloso. Lo sa bene la 36.enne che sabato alle 11 sarà ospite del Festival Endorfine. Minacciata di morte, ha dovuto abbandonare casa e lavoro. Ma non ha paura di raccontare la sua storia.

In un contributo pubblicato recentemente su n+ 1, Guardian e altri media, Kostyuchenko racconta la sua storia. Iniziata l’invasione, viene inviata dal suo giornale — l'indipendente Novaya Gazeta — in Ucraina. Sin dai primi giorni di guerra contribuisce con reportage dal fronte. Fino al 30 marzo 2022, quando — mentre stava per dirigersi nella contesa Mariupol — viene a sapere che agli uomini di Ramzan Kadyrov è stato ordinato di ucciderla. Costretta a lasciare l’Ucraina e impossibilitata a tornare in Russia, cerca riparo in Germania. Qui comincia a lavorare per Meduza, giornale indipendente russo con sede a Riga. Ma mentre progetta il ritorno in Ucraina (ottobre 2022), comincia a sentirsi male, forti dolori addominali, estremo gonfiore. Fegato e reni presentano valori fuori norma, ma le visite mediche escludono epatite e altre patologie: si comincia a pensare all’avvelenamento. Le indagini per tentato omicidio, lo ha confermato a fine agosto la procura di Berlino, proseguono. E Kostyuchenko ha ancora problemi fisici. Nel frattempo, ha pubblicato un libro nel quale ripercorre gli ultimi anni della «sua» Russia, «Un Paese perduto».

Seppur giovanissima, ha già 20 anni di esperienza alle spalle. Cosa significava, prima del 24 febbraio 2022, fare giornalismo in Russia?
«Lo stesso che in Occidente. Raccogliamo informazioni, le verifichiamo e le consegniamo alla gente. L’unica differenza è che il nostro lavoro comporta rischi maggiori. Negli anni in cui ho lavorato alla Novaya Gazeta quattro dei miei colleghi sono stati uccisi. Molti di noi sono sopravvissuti ad aggressioni, me compresa, e alcuni sono sopravvissuti anche al carcere. Sono stata detenuta più volte di quanto riesca a ricordare. Ma tutto questo non cambia la natura del lavoro».

Oggi è peggio. Novaya Gazeta e altri media indipendenti hanno dovuto cessare le proprie attività. Come fanno i giornalisti russi in esilio a far arrivare la propria voce al popolo russo?
«Dall’inizio della guerra, in Russia sono stati bloccati praticamente tutti i media indipendenti. La licenza di Novaya Gazeta, dove ho lavorato per 17 anni, è stata ritirata. Molti media e giornalisti sono stati etichettati come “agenti stranieri”. È accaduto poco più di una settimana fa al caporedattore di Novaya Gazeta e premio Nobel Dmitry Muratov. Alcuni media sono stati dichiarati “organizzazioni indesiderabili” e anche collaborare con loro è un reato. Intanto, nuove leggi criminalizzano qualsiasi informazione sulla guerra che contraddica quelle del Ministero della difesa russo. Molti giornalisti sono stati condannati a più di vent’anni di carcere per tradimento. Potremmo dire, insomma, che la professione giornalistica è ormai fuorilegge in Russia. Per questo motivo tanti giornalisti hanno dovuto lasciare la Russia e lavorano all’estero, intervistando a distanza i propri interlocutori. Questo non può sostituire il giornalismo tradizionale, ma permette di mantenere il contatto con la realtà russa. L’OSINT (open source intelligence, ndr) ci permette di lavorare in remoto ed è diventato molto popolare nelle indagini russe. Ma alcuni dei nostri colleghi sono rimasti e continuano a lavorare in patria. Sono dei veri eroi e rischiano ogni giorno. Come dice un mio collega, “ogni volta che esco di casa, non so se ci tornerò”. Mia sorella minore - anche lei giornalista investigativa per Novaya Gazeta - rimane in Russia e continua a lavorare: sono infinitamente orgogliosa di lei».

Quanto è forte il dissenso in Russia?
«Purtroppo, lo Stato ha ormai un controllo quasi totale sullo spazio mediatico russo. Dall’inizio della guerra sono stati bloccati non solo i media indipendenti, ma anche Instagram, Facebook e Twitter. L’unico ancora libero è YouTube, ma il suo blocco è costantemente in considerazione. La televisione è piena di propaganda aggressiva che giustifica la guerra. Ma lo Stato non può controllare il desiderio di verità della gente. I russi stanno imparando a usare le VPN (reti private con le quali aggirare i blocchi imposti dal Governo, ndr). Meduza, la più grande testata giornalistica indipendente russa, ha integrato un simile strumento direttamente nella propria app».

Come si manifesta questo desiderio di verità?
«La società russa vive in una situazione di crescente repressione, iniziata molto prima della guerra totale. Da febbraio 2022, più di 20.000 persone sono state condannate per attività contro la guerra. Ma simili iniziative continuano a emergere, anche se molte di esse non sono pubbliche. Vorrei fare il nome di FAS: Feminist Anti-War Resistance. I suoi membri sono anonimi e sparsi in tutto il Paese. I membri femminili della resistenza producono e distribuiscono propaganda contro la guerra, un proprio giornale, organizzano azioni contro la guerra e azioni dirette e costruiscono comunità contro la guerra».

Parliamo di lei. Trovarsi in un territorio conteso, con una taglia sulla testa, deve essere stato terrificante. Come ha raggiunto il confine una volta capito che proseguire verso Mariupol sarebbe stato impossibile?
«Non ho lasciato subito l’Ucraina. Ho trascorso altre 24 ore cercando di trovare una via d’uscita per Mariupol. Purtroppo non c’era. Sono partita senza problemi, in treno, insieme ai rifugiati».

Novaya Gazeta, nonostante la sospensione delle sue attività, ha coordinato la mia partenza. Non posso biasimare i miei colleghi per aver sospeso la pubblicazione dopo le enormi pressioni

Pochi giorni prima, il suo giornale Novaya Gazeta aveva sospeso le pubblicazioni in Russia, ma lei lo ha saputo da fonti esterne. Si è sentita abbandonata?
«Novaya Gazeta, nonostante la sospensione delle sue attività, ha coordinato la mia partenza. Non posso biasimare i miei colleghi per aver sospeso la pubblicazione dopo le enormi pressioni: avevano ricevuto un secondo avvertimento dall’agenzia di censura russa Roskomnadzor e sono stati minacciati di pene detentive fino a 15 anni. Ora, nonostante la revoca della licenza, Novaya Gazeta continua a operare in Russia».

Poi è arrivata in Germania e lì è stata vittima di un (probabile) avvelenamento. La diagnosi è arrivata tardi: il lavoro di medici e polizia è stato deludente?
«Credo che il problema principale sia stata mia sensazione di sicurezza in Europa. Non mi sono resa conto che le regole erano cambiate, che nessuno di noi era al sicuro. Se avessi saputo che era in corso un’ondata di avvelenamenti di giornalisti russi in Europa, non sarei stata così imprudente. E mi sarei rivolta alla polizia molto prima. Non posso biasimare i medici per il fatto che l’avvelenamento non sia stata la prima diagnosi ipotizzata. Hanno prima escluso le diagnosi più comuni e ciò ha richiesto molto tempo. Non ho modo di valutare il lavoro della polizia perché non sono informata sull’andamento delle indagini. Ma vorrei che la polizia condividesse con i miei medici la parte medica dell’indagine, ad esempio quali sostanze sono già escluse (dagli esami tossicologici, ndr). Questo aiuterebbe i medici a scegliere la riabilitazione e a farmi tornare in forze più velocemente. Rispetto la segretezza dell’indagine, ma questo è il mio corpo, devo viverci».

In Occidente il sostegno politico all’Ucraina sembra stabile. Ma è così anche tra la popolazione? La posizione pro-Kiev si è indebolita a causa della propaganda russa?
«So che in Germania alcune regioni hanno un atteggiamento negativo nei confronti dei rifugiati ucraini. So di casi di violenza e discriminazione nei confronti degli ucraini in Europa. Un mio amico russo, rifugiato, vive in un ostello per rifugiati insieme ad alcuni ucraini. Un giorno li ha invitati in un locale. Lui è stato ammesso, ma loro no. I proprietari del locale hanno detto che volevano che il locale fosse “privo di negatività”. Per alcuni europei è difficile immaginare cosa significhi fuggire dalla guerra. Non so se dobbiamo incolpare la propaganda russa per questo».

Da tempo si batte per i diritti della comunità LGBT in Russia. Che influenza ha avuto la guerra su questa fascia di popolazione?
«Il fascismo, in quanto ideologia che richiede una costante mobilitazione del popolo, non può esistere senza la nozione di nemici esterni e interni. Le autorità russe hanno da tempo scelto le persone LGBT come nemici interni. Dall’inizio della guerra, sono state approvate nuove leggi discriminatorie e ampliate quelle vecchie. Ora in Russia è vietato essere trans: era permesso anche nell’Unione Sovietica! Qualsiasi informazione neutra o positiva sulle persone LGBT è vietata. La stessa legge definisce le persone LGBT come un gruppo di persone “socialmente diseguali”. In sostanza, i russi LGBT sono ora al di fuori della legge e vulnerabili sia alla discriminazione sia alla violenza diretta».

Putin sta approfittando del caos per perseguire con maggiore ferocia le sue politiche anti-transgender?
«Credo che la radice della repressione contro i transgender sia un po’ più profonda. Lo Stato russo nega il diritto di una persona al proprio corpo. Questo non sorprende, perché la guerra e la mobilitazione, cioè la chiamata forzata a uccidere e a morire, sono incompatibili con la concezione che il tuo corpo, la tua vita, ti appartenga. Per lo stesso motivo il governo russo dichiara il femminismo un’ideologia estremista, le iniziative statali contro l’aborto sono in aumento e la violenza domestica è stata depenalizzata».

Gli ucraini LGBT, insieme ad altri ucraini, stanno difendendo il loro Paese al fronte. I loro commilitoni hanno iniziato a porre domande al comando e allo Stato: perché i coniugi dello stesso sesso non sono considerati coniugi e non ricevono sostegno dallo Stato in caso di morte di un loro caro al fronte?

E in Ucraina? Come sta affrontando la guerra la comunità LGBT ucraina? Il «Kyiv Post», citando studi del gruppo sociologico Rating, afferma che il sostegno al matrimonio tra persone dello stesso sesso è in crescita.
«Gli ucraini LGBT, insieme ad altri ucraini, stanno difendendo il loro Paese al fronte. I loro commilitoni hanno iniziato a porre domande al comando e allo Stato: perché i coniugi dello stesso sesso non sono considerati coniugi e non ricevono sostegno dallo Stato in caso di morte di un loro caro al fronte? In una società in guerra la posizione dell’esercito ha un grande peso. Inoltre, la società ucraina e lo Stato vogliono distanziarsi il più possibile dalla Russia, dove l’omofobia è ormai un’ideologia di Stato. Spero che l’uguaglianza per le persone LGBT ucraine arrivi il prima possibile».

Il suo libro La mia Russia: storie da un Paese perduto è disponibile in Italia già da aprile. Presto lo sarà anche in lingua inglese. Ha avuto problemi a far pubblicare i suoi scritti?
 «In Italia il libro è stato tradotto e pubblicato in pochi mesi, mentre negli Stati Uniti il ciclo minimo è di un anno. Ora il libro è in fase di preparazione per la pubblicazione in 11 lingue, compreso il russo. L’edizione russa è stata la più difficile, perché il mio libro contraddice diverse leggi e gli editori russi si sono rifiutati di pubblicarlo. Meduza sta lanciando una propria casa editrice e il mio libro sarà il primo a essere pubblicato. Intanto è già distribuito come e-book aggirando i blocchi, ma la versione stampata della versione russa sarà disponibile solo fuori dalla Russia. Speriamo che la situazione cambi presto».

Questa pubblicazione potrebbe riportare l’attenzione di Mosca su di lei?
«È quello che pensa la polizia tedesca. Ecco perché ora devo stare particolarmente attenta. So che il mio libro tocca un argomento delicatissimo per le persone al potere nel mio Paese. Spero che anche loro si prendano il tempo di leggerlo».

Quali sono i suoi progetti futuri? La prospettiva di lavorare lontano dall’azione, per una reporter del suo livello, è frustrante?
«Molto. Ma l’aspetto più frustrante è la mia salute: non so quando potrò tornare a viaggiare. Il primo viaggio di lavoro sarà sicuramente in Ucraina, se mi concederanno il visto. Ma soprattutto voglio tornare a casa».

Di fronte a queste difficoltà, si chiede mai se ne vale la pena?
«Non posso valutare appieno l’impatto del mio lavoro. Ma lavoro per i lettori. Finché ci saranno persone che mi crederanno, continuerò a farlo. Combatterò per il mio Paese, ne ho uno solo».

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