Benjamin Netanyahu è sempre più isolato

Benjamin Netanyahu è sempre più isolato, sia dentro sia fuori Israele. In queste ore gli occhi del mondo sono puntati verso quest’area per capire quale sarà la decisione di Hamas e del premier israeliano circa l’accordo su tregua e liberazione ostaggi e che cosa accadrà al governo di Gerusalemme. Anche perché qualunque sia la scelta di Netanyahu, avrebbe conseguenze.
Un accordo con Hamas per il cessate il fuoco potrebbe decretare la fine della sua carriera politica, già appesa a un filo. Se si arrivasse a un’intesa, infatti, i ministri Ben Gvir e Bezalel Smotrich abbandonerebbero - questa la loro minaccia - la coalizione e farebbero cadere il governo.
Dall’estero, dopo la fuga in avanti di venerdì scorso da parte di Joe Biden, il quale aveva presentato la proposta di accordo con alcuni dettagli non graditi a Israele, gli Stati Uniti questa sera hanno annunciato la presentazione di una risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiede il rilascio di tutti gli ostaggi in cambio di un cessate il fuoco completo a Gaza. Ipotesi che Israele non accetta, perché non vuole impegnarsi nel blocco delle operazioni militari senza gli ostaggi e senza la certezza che Hamas non possa più nuocere al Paese ebraico.
Ore di trattative con Gvir
Bibi, dunque, si trova stretto in una morsa. Da un lato, affinché si arrivi presto a una tregua, subisce la pressione americana e internazionale - oltre a quella delle famiglie degli ostaggi, che ormai dal 7 ottobre chiedono che si faccia qualunque cosa per portare a casa i loro cari, vivi o morti. Dall’altro lato, ci sono gli alleati di destra del governo che spingono per andare avanti con la guerra, costi quel che costi, avendo come unico obiettivo la distruzione di Hamas. Netanyahu non ha intenzione di mollare e starebbe cercando un’alternativa che, ancora una volta, lo salvi e gli permetta di rimanere al suo posto.
Sono ore di intense trattative e colloqui tra Netanyahu e Ben Gvir. Il premier vorrebbe infatti convincere il ministro della sicurezza nazionale dal desistere dal suo proposito di far cadere il governo in caso di tregua, probabilmente in qualche modo promettendogli che un accordo fatto ora con Hamas sarebbe solo strumentale a far tornare a casa gli ostaggi, dopodiché la guerra riprenderebbe.
Del resto, in questa prospettiva, lunedì scorso Netanyahu aveva detto al Comitato per gli Affari esteri e la Sicurezza della Knesset, il Parlamento israeliano, che «l’affermazione secondo cui abbiamo concordato un cessate il fuoco senza che le nostre condizioni fossero soddisfatte non è vera», con riferimento, molto probabilmente, all’ipotesi di cessate il fuoco permanente che invece è fortemente auspicato da Biden e compagni.
Il portavoce di Netanyahu ha detto ai giornalisti, nel corso di un briefing, che Biden aveva presentato solo uno schema «parziale» dell’accordo offerto da Israele a Hamas, spiegando che «la guerra verrà fermata allo scopo di restituire gli ostaggi, e poi procederemo con ulteriori discussioni».
La spinta di Gantz
Se gli sforzi di Netanyahu di convincere i ministri di destra a evitare di scegliere tra un accordo e la sopravvivenza del suo governo dovessero fallire, c’è già chi si offre come alternativa. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha fatto sapere di essere pronto ad aiutare il governo almeno a raggiungere l’accordo, fornendo una stampella a tre, insieme ad Avigdor Liberman, capo del partito russofono, e all’ex delfino di Netanyahu, Gideon Sa’ar. Per loro, la promessa di elezioni anticipate, anche se non subito.
Solo pochi giorni fa, per la prima volta in quest’anno, in un sondaggio di Channel 12, Netanyahu ha superato il suo principale rivale politico, Benny Gantz, come scelta preferita quale premier per gli israeliani. Quello stesso Gantz che, già alcune settimane fa, aveva dato un ultimatum al premier Netanyahu. «Uscirò dal Gabinetto se entro l’8 giugno non verrà presentato un piano d’azione sulla guerra», aveva detto Gantz, il quale auspica di riportare a casa gli ostaggi, abbattere Hamas, smilitarizzare Gaza e che ci sia una direzione USA-UE-araba-palestinese che getti le basi di un’alternativa futura a Gaza, che non sia né Hamas né Abu Mazen. L’8 giugno è domani. Anche se Gantz abbandonasse il governo, Netanyahu avrebbe ancora la maggioranza parlamentare.
Fonti della sicurezza egiziana hanno fatto sapere che non c’è alcun segnale che si sia vicini all’accordo, in quanto Hamas avrebbe ribadito che, senza la garanzia di un cessate il fuoco permanente, la proposta americana verrebbe respinta.
Un attacco su una scuola
Intanto, la situazione all’interno di Gaza resta bollente. Oggi 45 persone sono rimaste uccise in un attacco israeliano contro una scuola dell’UNRWA, dove erano rifugiati molti civili, nel campo profughi di Nuseirat, nella zona centrale della Striscia. L’esercito israeliano ha riferito di aver condotto un attacco aereo contro due piani dell’edificio dove c’erano dai 20 ai 30 militanti di Hamas e del Jihad islamico che «stavano utilizzando le strutture della scuola per pianificare ed eseguire attacchi contro le forze israeliane». Molti erano appartenenti alla Brigata Nukba, che è artefice del massacro del 7 ottobre.
Ad aggravare la situazione bellica, c’è però il fronte nord, dove Hezbollah militarmente è anche più armato di Hamas. Negli ultimi giorni i combattimenti tra il sud del Libano e il nord di Israele hanno fatto registrare una escalation, con migliaia di ettari di foresta israeliana bruciati, soldati e miliziani morti e feriti. Da quando è cominciata la guerra con Hamas, il gruppo libanese di Hezbollah ha attaccato quotidianamente il nord di Israele, come sostegno a Gaza. Secondo Times of Israel, sono dieci i morti civili israeliani nell’area e sedici i soldati. Attacchi sono arrivati anche dallo Yemen, dall’Iraq e dalla Siria: qui l’esercito, come in Libano, ha condotto diversi raid contro postazioni di Hezbollah. Il gruppo sciita ha dichiarato di aver perso oltre 300 uomini. Due giorni fa, sia Hezbollah che Netanyahu hanno detto di non volere una escalation del conflitto nella zona. Ma entrambi, si sono dichiarati pronti ad una guerra.