Medio Oriente

«Berna agisca, non si può restare in silenzio davanti alla tragedia di Gaza»

Medici Senza Frontiere raccoglie 25 mila firme per chiedere al Consiglio federale di mobilitarsi per aiutare i civili - La presidente di MSF Svizzera Micaela Serafini: «Non dobbiamo nasconderci dietro alla neutralità»
©MOHAMMED SABER
01.09.2025 13:30

Venticinquemila firme in meno di due settimane. Non numeri astratti, ma la misura della reazione di una società civile che non vuole restare a guardare. È quanto ha finora raccolto la mobilitazione lanciata da Medici Senza Frontiere in Svizzera per chiedere al Consiglio federale di agire di fronte alla tragedia di Gaza.

«Questa petizione morale non arriva da sola» racconta Micaela Serafini, presidente di MSF Svizzera, da noi contattata per un commento sull’iniziativa. «Siamo stati estremamente espliciti fin dall’inizio su ciò che accade a Gaza. Abbiamo denunciato con forza ciò che abbiamo visto. Le nostre squadre sul posto ci raccontano ogni giorno la realtà, e noi abbiamo la possibilità e il dovere di condividerla con tutti. Raccogliere 25.000 firme in così poco tempo significa che la comunità è viva, che crede occorra fare pressione sul governo svizzero affinché usi tutta la sua influenza per fermare questo genocidio».

Micaela Serafini, presidente di MSF Svizzera.
Micaela Serafini, presidente di MSF Svizzera.

Non è la prima volta che MSF si rivolge direttamente alle autorità federali. Già in passato l’organizzazione aveva denunciato le difficoltà nella distribuzione degli aiuti attraverso la Gaza Humanitarian Foundation, arrivando a mobilitarsi davanti a Palais des Nations — l’edificio che ospita la sede dell'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra in Svizzera — per chiedere ascolto. «Allora avevamo invitato il consigliere federale Ignazio Cassis a incontrarci e a sentire direttamente le nostre testimonianze dal campo» ricorda Serafini.

Oggi l’appello è ancora più netto: «La richiesta — la necessità — è che il Consiglio federale usi tutta la sua autorevolezza per chiedere il rispetto del diritto umanitario. Non possiamo restare in silenzio davanti a sfollamenti continui, alla mancanza di cibo e acqua, a un sistema sanitario distrutto e a una popolazione civile presa di mira».

E aggiunge: «Per noi la priorità è che la Svizzera non si nasconda dietro la propria neutralità e che faccia più di quanto fatto finora: è questo l’obiettivo principale della campagna»

Le parole della presidente di MSF non restano nell’astratto: diventano richieste precise, e urgenti. «Chiediamo l’apertura delle frontiere per permettere l’ingresso degli aiuti, la protezione delle infrastrutture mediche, di medici e infermieri, e la possibilità di evacuazioni sanitarie per quei pazienti che non possono essere assistiti dall'attuale, debole, sistema sanitario».

Fame come arma

Tra le denunce più gravi c’è quella dell’uso deliberato della fame come strumento bellico. Non è retorica: è esperienza quotidiana sul campo. «Cibo, acqua, elettricità possono essere usati come armi di guerra. Ed è ciò che stiamo vedendo oggi. Da quattro mesi il cibo arriva a gocce, l’acqua è insufficiente, l’elettricità inesistente. E la cosa più preoccupante è che, mentre lo vediamo, non viene fatto nulla».

Una persona su quattro tra bambini e donne incinte che si presentano alle cliniche di MSF è malnutrita. «Lo vediamo con i nostri occhi» sottolinea Serafini. «E sembra che tutto ciò che diciamo, tutto ciò che portiamo all’attenzione delle autorità, non generi alcuna reazione. Pochi giorni fa uno dei nostri camion che distribuiva acqua è stato attaccato. Immaginate la vita di chi va a prendere l’acqua e viene minacciato, o addirittura di chi guida un camion che diventa un bersaglio». Non si tratta di eccezioni ma di una quotidianità fatta di privazioni e di pericoli, e la catastrofe non è frutto del destino, ma di scelte precise.

«Quattro mesi di assedio, senza nulla che entri né che esca, hanno portato la popolazione a una situazione disperata. Siamo estremamente preoccupati: se non si interviene immediatamente, nelle prossime settimane la situazione diventerà persino peggiore di catastrofica. Non so se esista una parola oltre “catastrofico”, ma se c’è, è quella che descrive ciò che ci attende se gli aiuti continueranno a restare bloccati». L’intervista si è svolta tra francese e inglese, con lo spagnolo come sua lingua madre e l’italiano la mia. In nessuna di queste è emersa la parola necessaria.

Il rischio dell’assuefazione

Non servono più immagini per capire cosa accade a Gaza: le conosciamo già, scorrono ogni giorno davanti ai nostri occhi. Ma proprio questa ripetizione rischia di trasformare l’orrore in abitudine, la tragedia in sfondo. È il pericolo dell’assuefazione, del torpore dell’opinione pubblica. Serafini lo dice senza esitazioni: «Siamo abituati a crisi che iniziano con molta attenzione mediatica e poi vengono dimenticate. Ma qui non possiamo permetterci di dimenticare. Il silenzio non è un’opzione. Il silenzio continua a uccidere».

La voce di chi si trova dall’altro lato del telefono si fa personale, quasi intima: «Di fronte a questa tragedia, che non riesco ancora a descrivere, che non ho mai visto prima, così visibile a tutti, così mediatizzata e così crudele, credo non ci siano grida abbastanza forti. Non esiste un tono di voce capace di trasmettere quanto siamo frustrati nel vedere il pubblico continuare a guardare queste immagini senza reagire». Pur lasciando trasparire la fatica, Serafini non si arrende al senso di impotenza. «In poco tempo abbiamo raccolto 25.000 firme. Dimostrano che la collettività è pronta a reagire. Ci sono persone arrabbiate quanto noi per ciò che vedono. Non dobbiamo sottovalutare la mobilitazione né la sua forza. Questa non può diventare un’altra tragedia dimenticata». Uno sguardo lucido, attento a quei segnali che mostrano come la società civile non sia immobile.

Tra propaganda e silenzi

Mentre le ONG faticano a mantenere una presenza minima, la comunicazione pubblica segue altre strade. Negli ultimi giorni alcuni influencer israeliani e statunitensi sono stati accompagnati al confine di Gaza per realizzare video che raccontano una quotidianità normale, contenuti sponsorizzati dal governo israeliano. Una strategia che, nell’era dei social, rischia di avere più presa di un’inchiesta giornalistica.

Serafini, a riguardo, ammonisce: «Viviamo in un’epoca di disinformazione. Questa propaganda può diventare virale e fare molto male. Il rischio è che a poco a poco ci siano sempre meno voci capaci di raccontare la realtà di Gaza. E se un giorno non restasse più nessuna voce a testimoniare, sarebbe disastroso».

Il problema, aggiunge, è che «giornalisti internazionali non hanno accesso a Gaza, e anche le organizzazioni umanitarie sono ridotte al minimo. Il rischio più grande è che il silenzio prenda il sopravvento sulla realtà».

La frustrazione di chi cura

La realtà quotidiana di chi opera sul campo è inevitabilmente confrontata ad un senso di disarmante immobilità «È molto difficile contenere la frustrazione del nostro personale di fronte a tanta crudeltà» confessa Serafini. «Abbiamo più di mille collaboratori locali e 540 internazionali. C’è sempre la sensazione di non fare abbastanza, di non gridare abbastanza forte. Normalmente, come associazione umanitaria, possiamo agire, aiutare, cambiare. Qui, invece, sentiamo di non riuscire a cambiare nulla. Ed è questa impotenza che pesa di più».

Il senso di impotenza nasce dal divario evidente tra i bisogni e le risorse disponibili. «Non significa che restiamo paralizzati» precisa Serafini. «Continuiamo a reagire. Ma l’impatto che abbiamo è troppo piccolo rispetto ai bisogni e alla tragedia in corso. Come presidente di Medici Senza Frontiere, è molto difficile contenere questo senso di impotenza».

Le – finora – 25.000 firme non cambiano la sproporzione dei bisogni, ma indicano l’’impegno di chi non è rimasto indifferente. Un segnale che, nelle parole di Serafini, serve a rammentarci che altrimenti «il silenzio continua a uccidere».