L'intervista

Carlo Buontempo: «La collaborazione internazionale è fondamentale anche per il clima»

Con l'anima di Copernicus siamo tornati sulla decisione di Donald Trump di tagliare i fondi alla NASA per gli studi sul cambiamento climatico: «I dati in nostro possesso sono molto chiari»
©AARON SCHWARTZ / POOL
Giacomo Butti
05.09.2025 06:00

È passata qualche settimana, ormai, dalla notizia: la NASA «metterà da parte» gli studi sul clima. In un'intervista a Fox News, Sean Duffy - numero uno ad interim dell'agenzia spaziale statunitense - ha spiegato che «tutta la ricerca sarà indirizzata all'esplorazione». Un annuncio, questo, in linea con la proposta di bilancio del presidente Donald Trump, che in più ambiti prevede forti tagli ai programmi di scienze della Terra. Ma che rischia di avere un grosso impatto su tutto il monitoraggio terrestre, climatico e meteorologico, considerato il ruolo leader ricoperto dalla NASA per decenni.

Studiare il cambiamento climatico sarà più difficile? Ne abbiamo parlato con Carlo Buontempo, direttore del Copernicus Climate Change Service (C3S), servizio europeo di monitoraggio climatico. 

Preoccupazioni e certezze

Nel mondo multi-crisi di oggi, l'attenzione pubblica - così come i finanziamenti governativi - sembra allontanarsi dalla lotta al cambiamento climatico. Fare ricerca sul clima è più difficile rispetto a pochi anni fa? «Dipende molto da dove lavoriamo. In Europa, anche se le priorità macroeconomiche dettate dalla condizione internazionale sono cambiate, non abbiamo visto un impatto sulla scienza del clima e sugli investimenti pubblici in questa direzione», risponde Buontempo. «Certo, viviamo in un mondo diverso da quello di cinque-dieci anni fa e ciò ha un impatto sul modo in cui molti dei fondi disponibili saranno strutturati. Negli Stati Uniti si è deciso di procedere in un'altra direzione per una scelta politica, ma è importante guardare più in là dell'Occidente, perché ad esempio in Cina non c'è stato alcun allontanamento dal clima e i programmi di Pechino proseguono con interesse immutato».

Al di là dell'annuncio di Duffy, non abbiamo ancora - al momento - le tempistiche sul ritiro della NASA, che in ogni caso potrebbe colpire le importanti collaborazioni che esistono tra l'agenzia statunitense e il servizio climatico europeo. «Ovviamente abbiamo condotto un'analisi per verificare quali potrebbero essere gli impatti di un ritiro», conferma Buontempo. «Ovviamente, parlando del clima del pianeta, non si possono condurre studi unilateralmente. Come anche nell'ambito meteorologico, la collaborazione internazionale è necessaria e deve continuare: se, al contrario, un Paese decide di ridurre il proprio investimento, specialmente sulla parte di monitoraggio, questo inevitabilmente ci renderà un po' più ciechi sul ciò che succederà nel mondo». Un po' di preoccupazione, insomma, c'è, ma il direttore del C3S invita a evitare catastrofismi. «Come programma di osservazione della Terra, il nostro scopo è cercare di essere più resilienti possibili, di riuscire a operare in qualsiasi condizione. E in questo senso le analisi fatte finora indicano che anche negli scenari peggiori sul ritiro di investimenti pubblici o privati, Copernicus - pur risentendone - sarebbe in grado di continuare a operare, magari con qualche peggioramento in ambiti specifici».

Il C3S, infatti, è uno dei sei rami del programma Copernicus, che oltre al clima prevede osservazioni sul terreno, mari e atmosfera, oltre che servizi per la gestione dei disastri (naturali e creati dall'uomo) e osservazioni di sicurezza. Lo stato di salute di questo programma, sottolinea il direttore del servizio climatico, è buono. «Copernicus si trova a metà del suo programma di implementazione, strutturato su 7 anni, e proseguirà dunque fino al 2028 senza grandi deviazioni rispetto a quanto inizialmente previsto, se non alcune discussioni sul numero di satelliti necessari per la missione di monitoraggio del CO2. Nell'ultimo anno, piuttosto, si è iniziato a pensare in termini un po' più concreti di quelle che stanno le priorità del prossimo mandato, cioè quello che andrà dal 2028 al 2035. È, questa visione di lungo respiro, uno dei vantaggi del programma Copernicus rispetto a molti altri programmi di osservazione della Terra».

Il nostro programma, come la scienza in generale, può fornirci dati di buona qualità su cui basare le nostre scelte. Ma le scelte rimangono nostre, come cittadini, come società e classe politica che produciamo

Azione, oltre il disfattismo

Certo, i numeri che - di mese in mese - arrivano dal programma Copernicus, parlano di un mondo sempre più caldo. Facile, dunque, cadere in un disfattismo che certamente non aiuta l'azione. «Il nostro programma, come la scienza in generale, può fornirci dati di buona qualità su cui basare le nostre scelte. Ma le scelte rimangono nostre, come cittadini, come società e classe politica che produciamo. Oggi abbiamo più informazioni di quante non ne avessimo dieci o venti anni fa. Mai abbiamo avuto così tanti dati sul clima. Il passo successivo, tuttavia, è uno che esula dal contesto scientifico o tecnologico. Le evidenze osservative sul cambiamento climatico e su quali siano i meccanismi a nostra disposizione per ridurre l'impatto di questi cambiamenti sono chiarissime: la decisione su come agire, a livello individuale e collettivo, è nostra».

Preponderante, ovviamente, l'importanza del coordinamento internazionale. «Essendo il clima del pianeta uno e unico, se non si arriva a un accordo vincolante multilaterale globale la soluzione non è alla nostra portata, per cui, per quanto possano apparire frustranti e faticose, le discussioni alle Conferenze ONU sui cambiamenti climatici (la prossima, la COP30, si terrà a novembre in Brasile, ndr) sono il meccanismo corretto per seguire la strada iniziata a Parigi».

Ma anche la dimensione locale ha un suo ruolo, evidenzia Buontempo: «Ciò che può essere fatto anche nelle piccole realtà è definire un'agenda di adattamento al cambiamento climatico. Non per disfattismo, ma per una gestione del rischio efficiente. Sappiamo di andare incontro a ondate di calore sempre più intense, frequenti e durature. E sappiamo che lo stress termico ha un impatto sulla nostra salute, così come sull'agricoltura. Ecco, tutte queste sono informazioni che abbiamo già a livello osservativo, non solo teorico, e possono fornirci un punto di partenza per definire delle politiche di adattamento che possono essere estremamente locali». Di esempi ce ne sono parecchi: «Possiamo scegliere di cambiare gli orari di apertura dei negozi, o i modi e i materiali con cui costruiamo le nostre case. Possiamo cambiare il modo in cui ci muoviamo nelle nostre città, o la gestione del verde. Su queste scelte l'amministrazione locale e i cittadini stessi possono fare moltissimo e stanno già facendo molto. Il nostro rapporto sullo stato del clima europeo, pubblicato ad aprile, mostra come il numero di città europee che hanno implementato un piano di adattamento climatico è raddoppiato negli ultimi 10 anni, superando la soglia del 50%. Questo è un segnale che indica come effettivamente la società stia reagendo e stia prendendo nelle proprie mani la gestione del rischio climatico».

Obiettivi

L'accordo di Parigi del 2015 parlava di limitare l'aumento della temperatura globale «ben al di sotto di 2 gradi Celsius» rispetto al periodo preindustriale, idealmente a un aumento massimo pari a 1,5 gradi. Una soglia, quest'ultima, superata tuttavia nel 2024, il primo anno sopra il grado e mezzo. La società deve porsi altri obiettivi? «La discussione verte spesso sul concetto "keep the 1.5° alive" - mantenere vivo l'obiettivo di 1,5°. Ma nei circoli scientifici, oggi, si tende più a sottolineare come per il pianeta 1,6 gradi siano comunque meglio di 1,7. Se anche avessimo perso il treno per il grado e mezzo - e su questo Buontempo non usa termini assoluti - ciò non vuol dire che la discussione sul sulla mitigazione sia finita. Vuol dire semplicemente che dovremo probabilmente accettare un livello di rischio più alto di quello previsto a Parigi. In ogni caso, se il nostro scopo è quello di contenere o gestire questo rischio e contenere il riscaldamento globale, l'unica strada è quella di arrivare alle emissioni zero il più rapidamente possibile». 

Da scienziato, Buontempo evita un approccio emozionale alla questione climatica, uno che si appelli a scenari apocalittici futuri: «Non la vedo come una causa. Il nostro compito, penso, è quello di fornire un un'istantanea accurata del pianeta, senza un'agenda». Meglio, insomma, pensare ai problemi attuali. «I numeri pubblicati da Copernicus dal suo lancio mostrano come, verosimilmente, stiamo vivendo gli anni più caldi degli ultimi 100 mila, della Storia umana insomma. Penso sia di per sé un aspetto importante su cui riflettere, senza necessariamente evocare fenomeni che potranno o meno verificarsi, magari generando complessità aggiuntive».