Francia

Caso Pelicot, «la vergogna ha cambiato lato»

Il Tribunale di Avignone ha inflitto 20 anni di carcere al marito di Gisèle, Dominique – 51 le persone condannate – Centinaia di giornalisti hanno atteso la donna all’uscita dall’aula del Palazzo di Giustizia – «Questo processo è stato un calvario molto difficile ma non mi sono mai pentita della mia decisione»
© AP/GUILLAUME HORCAJUELO
Dario Campione
19.12.2024 15:46

La honte a changé de camp. La vergogna ha cambiato lato. Mentre il Tribunale di Avignone giudicava stamane 51 persone colpevoli di avere stuprato una donna inconsapevole, drogata dal marito e venduta, letteralmente, a decine di uomini, uno slogan issato sui cartelli e rilanciato dai giornali, dalle Tv e dai social in tutto il mondo diventava storia. 

Non sono le vittime di violenza che devono abbassare lo sguardo, chiedere scusa, vergognarsi di quanto accaduto. No. Devono farlo piuttosto i carnefici. Gli orchi. «Ho deciso di non vergognarmi, nulla ho fatto di male - aveva detto in aula, a ottobre, durante la sua drammatica testimonianza Gisèle Pelicot - Sono loro che devono vergognarsi», aveva aggiunto. Senza mai staccare gli occhi dalle facce attonite e smarrite, degli aguzzini.

Il coraggio, la forza, la determinazione di questa donna, oggi 72 enne, hanno trasformato un processo in qualcosa di enormemente più grande. Hanno messo in moto un gigantesco esame di coscienza, spalancato le porte a un dibattito sull’opportunità di aggiornare la legge francese sullo stupro, che al momento non fa menzione del fatto che il sesso dovrebbe sempre implicare il consenso. Ma hanno chiamato soprattutto a riflettere sul senso del rapporto tra uomini e donne, tra soggetti forti e soggetti deboli.

Una scoperta casuale

Il caso, com’è noto, era venuto alla luce nel 2020, quando il marito di Gisèle, Dominique Pelicot, 72 anni, oggi condannato dai 5 giudici di Avignone a 20 anni di carcere, era stato sorpreso mentre tentava di scattare fotografie sotto le gonne di alcune signore in un supermercato. In una successiva perquisizione, la polizia aveva scoperto nel computer dell’uomo oltre 20 mila foto e video che rivelavano, tra l’altro, l’orrore di violenze ripetute per almeno una decina d’anni contro la moglie. Pelicot drogava  Gisèle e filmava poi il corpo della donna, privo di sensi, abusato da dozzine di estranei contattati online. Secondo la polizia francese, sono stati almeno 72 gli uomini che hanno violentato Giséle, anche se alla fine ne sono stati identificati soltanto 50.

Il 17 settembre scorso, interrogato in Tribunale, Pelicot aveva ammesso ogni responsabilità. «Sono uno stupratore - aveva detto, aggiungendo - Chiedo a mia moglie, ai miei figli, ai miei nipoti di accettare le mie scuse. Mi pento di quello che ho fatto. Ti chiedo perdono, anche se non è perdonabile». L’uomo, più volte in lacrime, aveva rivelato di aver avuto un’infanzia difficile e di essere stato egli stesso vittima di stupro. Il rifiuto della moglie di partecipare a scambi di partner, assieme al trauma giovanile, aveva a suo avviso contribuito a innescare il comportamento violento. «È diventata una perversione, una dipendenza», aveva detto in aula. Confessando di aver filmato gli abusi come «polizza assicurativa nel caso in cui uno degli uomini coinvolti avesse reagito male», ma di essere stato pure «vittima di ricatto».

Il dibattimento a porte aperte

La storia di Gisèle Pelicot è esplosa all’inizio del processo, il 2 settembre, quando la donna, rompendo lo schema abituale dei dibattimenti sulle violenze sessuali, ha chiesto che tutto si svolgesse pubblicamente e non a porte chiuse.

Quel giorno, secondo le sue stesse parole, «La honte a changé de camp. La vergogna ha cambiato lato». Gli stupratori, improvvisamente, hanno avuto un nome e un volto. Lo schema si è ribaltato. «È iniziato così un processo “storico”, fuori dal comune», ha scritto Le Figaro. La revoca della sessione riservata «è stata una rottura con la consueta prassi delle assise. La pubblicizzazione del dibattito è stato un atto quasi politico - ha detto al quotidiano parigino l’ex magistrato e saggista Denis Salas - Una decisione che ha sorpreso tutti, dagli avvocati difensori agli imputati, alla stampa».

Il mondo è così entrato nella stanza della tortura della famiglia Pelicot, a Mazan, in Provenza. E nulla è stato più come prima.

Gisèle Pelicot ha ripetuto più volte di non essersi mai pentita della decisione di rendere pubblica la sua storia. E oggi, davanti a centinaia di giornalisti che la attendevano fuori dall’aula del Tribunale di Avignone, ha nuovamente spiegato i motivi della sua scelta.

«È con profonda emozione che oggi vi parlo - ha esordito - Questo processo è stato un calvario molto difficile. Penso prima di tutto ai miei tre figli, David, Caroline e Florian. Penso anche ai miei nipoti, perché sono il futuro ed è anche per loro che ho condotto questa battaglia, così come per le mie nuore Aurore e Céline. Penso anche a tutte le altre famiglie colpite da questa tragedia. Penso, infine, alle vittime non riconosciute, le cui storie spesso rimangono nell’ombra. Voglio che sappiate che condividiamo la stessa lotta».

«Desidero esprimere la mia più profonda gratitudine a tutte le persone che mi hanno sostenuto durante questo calvario. Le vostre testimonianze mi hanno sconvolto e da esse ho tratto la forza per tornare ogni giorno a seguire le lunghe giornate di udienze. Ringrazio anche l’associazione di aiuto alle vittime per l’incrollabile sostegno. È stato inestimabile per me. A tutti i giornalisti che mi hanno seguito e hanno seguito questo caso sin dal suo inizio, desidero esprimere la mia gratitudine per il trattamento fedele, rispettoso e dignitoso con cui hanno riferito quotidianamente di queste udienze. Ai miei avvocati, infine, va tutta la gratitudine e la stima che nutro per loro per avermi accompagnato in ogni tappa di questo doloroso cammino. Volevo, aprendo le porte di questo processo il 2 settembre, che la società potesse prendere in mano i dibattiti che vi si sono svolti. Non mi sono mai pentita di questa decisione. Ora ho fiducia nella nostra capacità di cogliere collettivamente un futuro in cui ogni donna e ogni uomo possano vivere in armonia con rispetto e comprensione reciproca».

E a un cronista che le chiedeva della sentenza, ha risposto semplicemente: «Rispetto la Corte e la decisione del verdetto». Merci, Gisèle.

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