Che cosa c'entrano le pecore australiane con il conflitto in Medio Oriente?

Il conflitto in Medio Oriente, ne abbiamo parlato a più riprese, sta causando gravi conseguenze anche nel Mar Rosso, nodo nevralgico del commercio mondiale. Nelle ultime settimane, sono stati diversi gli attacchi a navi mercantili, petroliere, cargo, portacontainer e navi militari. Con il protrarsi della guerra e delle tensioni, la situazione non accenna a migliorare. E, anzi, mette in difficoltà anche i settori più impensabili: come quello dell'esportazione di bestiame. In particolare, quella di alcune pecore australiane.
Ma perché dovrebbe esserci un legame tra quanto sta accadendo in Medio Oriente e questi animali? Partiamo dall'inizio. Dalla nave commerciale Bahijah, battente bandiera delle Isole Marshall, sulla quale vengono abitualmente trasportate migliaia di ovini e bovini. Partita dal porto di Fremantle (Australia) alla volta del Medio Oriente, la Bahijah trasportava, pare, qualcosa come 15 mila pecore. Ma dopo una decina di giorni passati in mare, alla nave è stato ordinato di fare dietrofront e tornare a Fremantle. Motivo: la turbolenta situazione nelle acque del Mar Rosso. Da lunedì, dunque, la nave è ancorata di nuovo a Fremantle. Ma la sua sorte – e soprattutto quella degli animali a bordo – resta ancora da decidersi.
Le opzioni, al momento, sono infatti diverse. In primo luogo, l'Australia sta valutando se rifornire la nave di cibo e foraggio prima di «spedirla» verso altre destinazioni. In particolare, secondo i media locali, le autorità della WAFarmers (Western Australian Farmers Federation) starebbe pensando di tentare il viaggio per la via più lunga: 33 giorni intorno al Corno d'Africa che eviterebbe il canale del Mar Rosso e la potenziale violenza dei ribelli Houthi contro le navi commerciali. Giorni che andrebbero a sommarsi ai 25 già passati a bordo del mezzo. Un'eternità per gli animali.
Alternativamente, stando a quanto comunicato dall'Australian Livestock Exporters' Council, gli animali potrebbero essere messi in quarantena nel Paese. Tendenzialmente, a causa delle severe, severissime leggi sulla biosicurezza in vigore nel Paese, il bestiame non potrebbe rientrare nell'allevamento, ma dovrebbe venire macellato sul posto. Scenario che si sta cercando di evitare, procedendo con soluzioni alternative che, tuttavia, faticano a essere trovate.
Nel frattempo, però, gli animali rimasti «prigionieri» sulla Bahijah potrebbero presto trovarsi in condizioni pericolose. Le previsioni meteo dell'Australia occidentale, infatti, nelle prossime ore prevedono ondate di calore importanti, con temperature fino a 45 gradi. Secondo i rapporti di un veterinario a bordo della nave, per ora, osservando le pecore non sono emersi segnali preoccupanti per la loro salute o benessere. Ma la loro sorte, tuttavia, dipenderà dalla velocità con cui verranno, effettivamente, prese decisioni sulla Bahijah.
Un argomento di dibattito
Il caso ha aperto un acceso dibattito in Australia. Oltre 50 giorni in mare, dicevamo, è davvero una soluzione? No, secondo i coordinatori di Stop Live Exports, organizzazione oppostasi con forza al progetto: «L'idea di rimandare questi animali in mare per 33 giorni è disumana. L'esportazione di animali vivi è crudele, non può essere regolamentata e deve finire al più presto», ha commentato la rappresentante Rebecca Tapp, citata dalla ABC. E i politici non si sono tirati indietro. Come il deputato federale di Fremantle Josh Wilson, il quale ha dichiarato che la fine delle esportazioni di animali vivi «non arriverà mai abbastanza presto». «Abbiamo una nave con migliaia di pecore che soffrono un caldo intollerabile e sono confinate a causa del pericoloso commercio di pecore vive». «È un commercio marginale, che vale meno dell'1% della produzione agricola dell'Australia occidentale. È davvero giunto il momento di porre fine a questa pratica», ha affermato il politico ai microfoni dell'emittente nazionale.
Il caso è arrivato anche ai vertici del governo. Alla domanda di ABC Radio Perth se fosse favorevole al divieto di esportazione di animali vivi, il premier Cook ha risposto che è necessaria una soluzione che tenga conto degli interessi degli allevatori. «Un divieto avrebbe un impatto sulla nostra industria di circa 129 milioni di dollari, con la perdita di 400 posti di lavoro», ha dichiarato. «Idealmente, mi piacerebbe che la carne venisse lavorata in Australia Occidentale, il che significa più posti di lavoro in Australia Occidentale e una migliore cura degli animali. Ma il fatto è che molti dei nostri agricoltori fanno affidamento su un ecosistema che prevede l'esportazione di animali vivi».