Turchia

Che cosa dobbiamo aspettarci, ora, da Recep Tayyip Erdogan?

Dai rapporti con la NATO, segnati dalla questione Svezia, a quelli con Vladimir Putin, affrettatosi a congratularsi per la rielezione: sarà soprattutto sulla scena internazionale che il Sultano farà parlare di sé
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Marcello Pelizzari
29.05.2023 08:30

E adesso? L’Occidente, probabilmente, sperava che la lunga, lunghissima parentesi di Recep Tayyip Erdogan al potere si chiudesse con queste presidenziali. E invece, il Sultano beneficerà di un terzo mandato. Tante, troppe le domande. Diverse le paure. Una su tutte: che il presidente sfrutti questo risultato per allontanare, ulteriormente, la Turchia sia dalla democrazia sia dai principi laici sui quali la Repubblica era stata fondata. E che, di riflesso, lo stesso Erdogan cada fra le braccia di Vladimir Putin.

Un diplomatico occidentale, al riguardo, ha rivelato al Guardian: «In passato Erdogan aveva trasformato il transazionalismo quasi in una forma d’arte e poi quasi in un’ideologia. Ma recentemente è diventata una vera e propria antipatia per i valori e l’arroganza occidentali». Süleyman Soylu, ministro degli Interni, in campagna elettorale si era spinto oltre. Definendo un traditore chiunque mostrasse sentimenti e tendenze filo-occidentali. Al netto della retorica, c’è di che preoccuparsi.

La questione NATO

Autoproclamatosi mediatore della guerra in Ucraina, Erdogan a stretto giro di posta dovrà venirne a una sulla questione Svezia-NATO. L’Alleanza ha in programma un vertice a Vilnius e l’adesione del Paese scandinavo è fra i temi principali in agenda. Se è vero che il presidente turco ha mostrato saggezza accettando, dopo un no iniziale, la candidatura della Finlandia, è altrettanto vero che in questi mesi ha lasciato gli svedesi sulle spine.

Colpa, ai suoi occhi, della questione curda. La Svezia, accusata senza troppi giri di parole di sostenere il PKK, sta cercando di compiacere, a suo modo, Erdogan. Dall’estradizione di 140 curdi al rafforzamento delle leggi antiterrorismo. Tutto, o quasi, pur di compiacere Ankara, perfino cercare di capire, come sostiene la Turchia, se la comunità curda in Svezia è diventata una forte fonte di sostentamento del Partito dei lavoratori del Kurdistan, il PKK.

Decisivo, in tal senso, potrebbe essere l’intervento degli Stati Uniti. Joe Biden, pur non amando particolarmente Erdogan, è disposto a revocare il blocco delle vendite di armi statunitensi alla Turchia e, quindi, ad approvare la vendita di caccia F-16 per 20 miliardi di dollari ad Ankara. A patto, da un lato, che Erdogan stesso accetti la Svezia nella NATO e, dall’altro, che il presidente riesca a convincere i leader delle due Commissioni per gli affari esteri, alla Camera e in Senato. Fronte democratico, c’è chi vorrebbe prima maggiori rassicurazioni circa le intenzioni di Erdogan, i cui toni muscolari nei confronti della Grecia non sono affatto piaciuti.

Ombre russe

Detto del tira e molla in ottica NATO, a preoccupare e non poco – come detto – è il rapporto, stretto, fra Erdogan e Putin. In campagna elettorale, ad esempio, il Sultano ha spiegato che la Russia occupa un posto speciale e che i rapporti fra i due Paesi riflettono, di fatto, quello fra lui e il leader del Cremlino. Di qui l’idea, ribadita in questi mesi, di essere il mediatore giusto per fermare la guerra.

Non si tratta, ovviamente, solo di parole. Lo scorso aprile, infatti, Erdogan ha inaugurato la prima centrale nucleare del Paese. Costruita con il sostegno finanziario e grazie alla tecnologia della Federazione Russa.

I funzionari statunitensi, allargando il campo, hanno pure cercato di convincere Erdogan a frenare quelle che potremmo definire cattive abitudini da parte delle imprese turche, divenute un canale preferenziale di Mosca per aggirare le sanzioni occidentali. L’America, sin qui, non è riuscita a impedire alla Turchia di stringere accordi con società russe sotto sanzioni, di frenare il commercio con la Russia di prodotti occidentali, come ad esempio gli smartphone di Apple, di esportare nella Federazione beni a duplice uso, ovvero che possono essere usati per applicazioni civili e militari, come plastica, gomma e componenti elettroniche.  

Il risultato di queste presidenziali, a conti fatti, fa il gioco di Putin. Non sorprende che il presidente russo sia stato uno dei primi a congratularsi con il leader turco. Putin d’altronde ha fatto il possibile per far pendere la bilancia a suo favore, incluso il rinvio di un pagamento di 600 milioni di dollari per il gas naturale russo.

È un gioco teso, se non tesissimo par di capire. La Turchia non intende sposare le sanzioni occidentali imposte alla Russia e, al contempo, gli Stati Uniti si limitano a sensibilizzare Erdogan: imporre sanzioni secondarie per l’aiuto fornito a Mosca, difatti, potrebbe avvicinare il Sultano ancora di più a Putin.

E il cambiamento?

Certo, agli occhi dell’Occidente e dell’Europa in particolare Erdogan è (anche) un male necessario e, quindi, un bene. Soprattutto nell’ottica di abbassare i toni con altri attori della regione, come Arabia Saudita, Egitto e Siria.

Di certo, la sua visione politica e il suo pessimo record in termini di diritti umani calpestati non lo riavvicineranno, politicamente, all’Unione Europea. L’adesione di Ankara, sospesa dal 2018, difficilmente tornerà a essere un tema. Erdogan, nel celebrare il successo, ha urlato candidamente che «solo la Turchia ha vinto», salvo poi attaccare l’opposizione e la comunità LGBTQ+. Un assaggio di ciò che sarà (e di ciò che è sempre stato).

Chi voleva un cambiamento, quasi il 48% dei votanti, è rimasto deluso. E forse, ora, un po’ come l’intero Occidente sarà timoroso. Molti analisti prevedono che la religione si impossesserà sempre più della quotidianità, rubando spazio alla libertà nella vita pubblica. E dire che, a ottobre, la Repubblica – che il suo fondatore, Atatürk, voleva laica – compirà cent’anni.

La Turchia rimane divisa, dunque. Come diviso, divisivo o se preferite ambivalente è il suo atteggiamento sulla scena internazionale. La sua economia è distrutta. E i critici sostengono che Erdogan non sa né come riunificare il Paese né come farlo ripartire.

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