L'approfondimento

Che cos'è la Soluzione dei due Stati?

Invocata da molti leader politici in queste ore, fra cui l'italiana Giorgia Meloni, prevede la creazione di un vero e proprio Stato palestinese – Ma il cammino sembra complicatissimo
© RUNGROJ YONGRIT
Marcello Pelizzari
21.10.2023 15:00

La soluzione dei due Stati, da tempo, rappresenta una speranza per arrivare, finalmente, a una pace duratura se non definitiva nell’ambito del conflitto israelo-palestinese. Molti leader politici, in queste ore, la stanno invocando a gran voce.

Ma di che cosa si tratta, nello specifico? Brevemente, questa soluzione garantirebbe – oltre all’esistenza dello Stato di Israele – anche la formazione di un vero e proprio Stato palestinese.

La soluzione dei due Stati è favorita dalle grandi potenze occidentali, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma anche dalle Nazioni Unite e, nel suo piccolo, pure dalla Svizzera.

Detto ciò, sono in molti – ora – a temere che non si arriverà mai a uno scenario simile.

D'accordo, ma quali confini?

Al di là dell’attuale operazione militare di Israele, della costante minaccia di Hamas e del ruolo, tutto fuorché marginale, di altri attori regionali, un ostacolo apparentemente insormontabile riguarda i confini di un potenziale Stato palestinese. Alcuni ritengono che bisognerebbe ritornare alla situazione pre-1967, prima cioè che Israele occupasse – al termine della cosiddetta guerra dei sei giorni – Gerusalemme Est, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.

Da allora, il numero di insediamenti israeliani all’interno della Cisgiordania è cresciuto. Come sono cresciuti gli israeliani che vivono a Gerusalemme Est. Si stima che, in totale, 600 mila israeliani vivano in questi territori. Sebbene questi insediamenti siano considerati illegali secondo il diritto internazionale, la loro esistenza – di fatto – complica e non poco le cose in termini di confini del possibile, futuro Stato palestinese.

La situazione nel 2007. © Wikpedia
La situazione nel 2007. © Wikpedia

Lo status di rifugiato

La creazione dello Stato di Israele e la conseguente guerra arabo-israeliana, nel 1948, provocarono quella che – ancora oggi – viene ricordata come una catastrofe: la nakba, appunto. A margine della citata guerra arabo-israeliana, 700 mila palestinesi circa – la metà della popolazione araba se pensiamo alla Palestina sotto il controllo britannico – fuggirono o vennero cacciati.

Le Nazioni Unite risposero concedendo lo status di rifugiato a circa 750 mila persone, definite come persone «il cui luogo di residenza abituale era la Palestina nel periodo compreso tra il 1. giugno 1946 e il 15 maggio 1948, e che hanno perso sia la casa che i mezzi di sostentamento a causa del conflitto del 1948». Secondo i criteri delle Nazioni Unite, tuttavia, qualcosa come 5,9 milioni di palestinesi sparsi fra territori occupati, Giordania, Libano e Siria possono reclamare la stessa definizione. Tutti sono accomunati da un desiderio: avere una casa, vera, chiamata Palestina. Ma, all’interno dei territori occupati, non ci sarebbe spazio per così tanti palestinesi. E Israele, di riflesso, non sarebbe disposto ad accogliere una parte di queste persone nei propri territori: andrebbe contro l’idea stessa che lo Stato Ebraico ha di questa soluzione.

La questione di Gerusalemme

Se la situazione, fin qui, vi è sembrata complicata, quella legata a Gerusalemme se possibile è ancora più complessa. E apparentemente irrisolvibile. Sia i palestinesi sia gli israeliani considerano questa città la loro capitale. Una rivendicazione legittima, considerando il significato storico e religioso di Gerusalemme. Dove hanno sede i luoghi sacri dell’ebraismo, dell’islam e del cristianesimo. Ad esempio, la Città Vecchia, cinta dalle mura, ospita sia il Monte del Tempio – il luogo più sacro dell’ebraismo – sia la Moschea di al-Aqsa, il terzo luogo più importante dell’Islam dopo La Mecca e Medina, dove i musulmani credono che il profeta Maometto sia asceso al cielo.

Il governo israeliano sostiene che Gerusalemme sia la sua «capitale unita e indivisa». Qui, d’altronde, hanno sede il governo e il parlamento israeliano, la Knesset.

Nonostante le Nazioni Unite e la comunità internazionale abbiano ampiamente, e più volte, condannato l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania – e li considerino un ostacolo alla pace, una tesi questa sostenuta anche dallo scrittore David Grossman – poco è stato fatto per scoraggiare Israele.

Lo Stato Ebraico ritiene giustificati gli insediamenti, forte di legami storici (e biblici) con queste terre.

Che cosa ne pensa Netanyahu?

Israele, ufficialmente, sposa la soluzione dei due Stati. Ce ne aveva parlato anche Ifat Reshef, ambasciatrice dello Stato Ebraico in Svizzera. A condizione, evidentemente, che Hamas e altri gruppi militanti cessino di esistere.

Hamas, dal canto suo, pur avendo giurato di voler distruggere Israele nel 2007 aveva detto che avrebbe accettato uno Stato palestinese con i confini precedenti il 1967.

L’attuale instabilità politica in Palestina, con Hamas che ha preso il sopravvento sul al-Fatah e, in parte, anche sull’Autorità nazionale palestinese (ANP), rende in ogni caso difficilissima un’applicazione della soluzione.

Molti politici israeliani, di riflesso, hanno abbandonato da tempo l’idea. L’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, di suo non è mai stato uno strenuo difensore di questa soluzione. Si è rassegnato, come dire, all’idea, a patto che il futuro Stato palestinese non abbia forze militari e di sicurezza. Di recente, al riguardo, è stato ancora più duro e tranciante.

La storica intesa fra Rabin e Arafat. © Wikipedia
La storica intesa fra Rabin e Arafat. © Wikipedia

Gli accordi di Oslo

La soluzione dei due Stati si avvicinò a una sua concretizzazione negli anni Novanta, quando gli Stati Uniti – sotto la presidenza di Bill Clinton – facilitarono la firma degli accordi di Oslo nel 1993. Accordi che portarono all’istituzione dell’Autorità nazionale palestinese con il compito di autogovernare, in modo limitato, parte della Cisgiordania e la striscia di Gaza.

L’immagine, simbolo, di quell’intesa storica fu la foto della stretta di mano, sul prato della Casa Bianca, fra l’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat. Gli accordi di Oslo videro Israele riconoscere formalmente l’OLP come rappresentante dei palestinesi. In cambio, il gruppo rinunciò alla violenza.

Le due parti concordarono la formazione di un’Autorità palestinese, l’ANP, che avrebbe governato la Cisgiordania e Gaza per un periodo di cinque anni. Due anni più tardi vennero firmati anche gli Accordi di Oslo 2. Con ulteriori concessioni ai palestinesi.

Le cose, per contro, andarono diversamente. Rabin fu assassinato da un giovane nazionalista ebreo proprio nel 1995, un fatto che fece diminuire, e di molto, le speranze di attuare la soluzione dei due Stati.

Da allora, molti altri eventi hanno contribuito alle tensioni attuali e, addirittura, alla possibilità che Israele invada Gaza via terra.

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