Coronavirus, soluzioni dalla medicina africana?

Commentando l’uso di ricette tradizionali africane per fronteggiare il coronavirus, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale per la Salute, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha ricordato che «gli africani meritano di usare medicinali testati secondo gli stessi standard riservati alle persone nel resto del mondo. Anche se le terapie derivano dalla pratica tradizionale e naturale, è fondamentale stabilire la loro efficacia e sicurezza attraverso rigorosi studi clinici». Vuoi vedere che dal cuore dell’Africa giungerà la cura alla CODIV-19? Ne parliamo con l’esperto di questioni africane Alessandro Leto.
La natura aiuta?
«Ghebreyesus, osserva Leto, sa il fatto suo perché non solo è stato ministro degli Esteri in Etiopia, ma anche ministro della Sanità e ha affrontato a suo tempo una convergenza di epidemie in diverse regioni del suo Paese. Il suo appoggio alle terapie tradizionali africane si spiega col fatto che un buon sistema immunitario aiuta l’organismo a resistere meglio al virus. E la medicina tradizionale africana, come quella asiatica, da sempre cerna di capire gli aiuti che la natura può fornire per sostenere un organismo debilitato. In Africa ci sono molte piante medicinali che di sicuro su organismi di africani funzionano. Ma non è detto che funzionino con tutti».
Quante vittime?
Secondo i dati del 7 maggio forniti dal «Centre africain de contrôle et de prévention des maladies» i contagi in Africa erano oltre 51 mila e le morti più di 2000. «In realtà sono stime poco attendibili dal punto di vista statistico. L’Africa ha 54 stati ma non tutti dispongono di un sistema sanitario centralizzato. Quindi non esistono informazioni precise».
La buona reazione
Gli africani sono abituati a patologie ben più gravi (ricordiamo che il virus Ebola ha fatto 11 mila morti tra il 2014 e il 2015 tra Liberia, Sierra Leone e Guinea, ndr.) e forse proprio per questo c’è stata una buona reazione degli Stati africani. «Terrorizzati da quella che può essere una nuova pandemia hanno imposto misure di contenimento simili a quelle attuate in Occidente. D’altra parte la realtà spaziale e temporale africana è molto diversa dalla nostra. Non so come si possa garantire il distanziamento sociale negli slam delle grandi metropoli africane, come quello di Kibera alle porte di Nairobi per esempio».
Il pericolo delle tribù nomadi
«Le realtà potenzialmente più pericolose dal punto di vista del contagio - osserva il nostro interlocutore - potrebbero essere le tribù nomadi perché potrebbero diffonderlo facilmente da un’area all’atra. Ammesso e non concesso che ricevano tutti gli avvertimenti necessari per proteggersi, limitarne la socialità è un’impresa che appare quasi impossibile. Nel loro modo di vivere non è che dispongano di strumenti diversi dall’abbraccio o dalla condivisione del pasto tutti insieme, vecchi e bambini. Su questo e su altri aspetti ci sono più domande che risposte», conclude Leto.