Società e informazione

Da 40 anni il dolore in tv

Il 10 giugno 1981 un bimbo di 6 anni, Alfredino Rampi, precipitava in un pozzo artesiano alle porte di Roma: la Rai coprì l’evento con un’interminabile diretta che raccontò il dramma fino alla morte del piccolo
Dario Campione
10.06.2021 06:00

Quarant’anni fa, in Italia, venne «sdoganata» la Tv del dolore. Il 13 giugno 1981, alle 7 del mattino, decine di milioni di telespettatori assistettero, impotenti e attoniti, alla morte di Alfredino Rampi. Era la tragedia di Vermicino. La Rai aveva trasmesso in diretta, e a reti unificate, per 18 ore, la lenta agonia del povero bambino di sei anni precipitato, tre giorni prima, in un pozzo artesiano di 30 cm di diametro ma profondo ben 30 metri e lasciato sconsideratamente aperto alle porte di Roma, nelle campagne vicino a Frascati.

Una grande tragedia che divenne, a un certo punto, un gigantesco evento mediatico: il racconto per immagini del tentativo di salvare la vita del bimbo. Una narrazione, ha scritto la studiosa dei mass media Anna Bisogno, che «indirizzò l’eterno flusso televisivo sulla strada del dolore in veste di intrattenimento».

La rottura degli argini

Vermicino fu uno snodo chiave del modo di fare informazione. «Il potere di ampliamento dell’emozione, proprio della Tv, creò un’ansia e una suspense incredibili in tutto il Paese. Fino a quel momento, questo potere era stato giustamente tenuto sotto controllo. Da lì in poi, invece, si ruppero gli argini». La riflessione è di Giovanni Minoli, giornalista, scrittore e dirigente televisivo, uno dei volti più noti della televisione pubblica italiana, ancora oggi conduttore di un programma radiofonico (“Il Mix delle Cinque”) in onda su Rai Radio1.

«Nel work in progress di Vermicino, che oggettivamente prese la mano a molti, ebbe un ruolo importante, direi decisivo, il presidente della Repubblica Sandro Pertini - racconta Minoli al Corriere del Ticino - L’allora direttore del Tg1, Emilio Fede, venne chiamato ripetutamente dal segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, il quale chiedeva che la diretta andasse avanti perché Pertini voleva essere presente nel momento del salvataggio di Alfredino Rampi».

Le cose finirono purtroppo diversamente. La storia sfociò in dramma. Ma la Tv scoprì di possedere una forza che nessun altro medium aveva. «La potenza devastante dell’emozione continua è insuperabile - dice Minoli - e l’uso che se ne fa un dato politico essenziale. La televisione è lo strumento più sofisticato che l’uomo abbia mai inventato, una macchina delicatissima troppo spesso, in Italia, affidata a dilettanti». Talvolta a proposito. Dato che la politica ha in realtà imparato a utilizzare la Tv per i suoi obiettivi. Ad esempio, deviare l’attenzione.

Distogliere le menti

Minoli racconta un altro caso di scuola: «L’ingresso sui campi di calcio delle auto di polizia e guardia di finanza per arrestare i giocatori coinvolti nello scandalo delle scommesse servì a far dimenticare, in parte, la vicenda della P2 di Licio Gelli. Se si mettono in relazione situazioni emozionanti forti, racconti Tv e i retrostanti scenari politici, si possono facilmente scoprire rapporti non dichiarati. È un gioco molto pericoloso, su cui gli americani hanno fatto anche qualche buon film».

Tornando alla Tv del dolore, l’ex direttore di Rai2 spiega come «il problema sia sempre nel manico: un conto è raccontare gli eventi, un altro speculare o insistere in modo morboso su ciò che accade. Non solo: il discrimine è sempre molto soggettivo e legato all’idea di chi decide. I confini di questa narrazione non sono scritti, anche perché gli eventi sono imprevedibili. “Il più grande sceneggiatore del mondo è il Padreterno” diceva Enzo Biagi. E aveva ragione».

La televisione, è questa la tesi finale di Minoli, mantiene quasi intatta la sua «centralità, perché l’unità di tempo e di luogo del racconto fa massa. Torniamo all’esempio degli Stati Uniti: è vero che oggi le campagne elettorali vengono condotte sfruttando al massimo i social, e la vicenda di “Cambridge Analytics” ci insegna quanto contino i canali online; tuttavia, a urne chiuse, i presidenti per parlare al popolo si affidano ai canali della Tv generalista. Scrivono sì un tweet, ma poi si siedono davanti a una telecamera. Perché la Tv generalista ha quella autorevolezza, giusta o sbagliata, che avevano i giornali nell’epoca precedente».

L’economia dell’attenzione

Giuseppe Richeri, professore emerito dell’USI di Lugano - dove ha insegnato Storia sociale dei media - offre un’ulteriore chiave di lettura dello sviluppo prepotente che caratterizza la cosiddetta Tv del dolore. «I mass media si fondano su un meccanismo di attrazione che è lo stupore, non la riflessione. Non è un caso che uno dei filoni odierni più interessanti di ricerca sia la cosiddetta “economia dell’attenzione”, vale a dire come le persone distribuiscono il proprio interesse sui vari eventi e sui vari mezzi di comunicazione».

In un sistema ricchissimo di fonti, «le sollecitazioni sono sempre più numerose - dice Richeri - C’è il problema di come attirare il pubblico e bloccarlo su un canale o su un filone informativo che si sta sviluppando». Centuplicare gli effetti sensazionali può essere un metodo efficace. Quindi, «uscire dallo schema della vita normale, stupire, sgomitare per farsi notare, creare qualcosa che attiri l’attenzione. L’aumento del turpiloquio, delle oscenità, degli insulti serve a questo - conclude Richeri - a farsi largo nella moltiplicazione delle fonti d’informazione. Un processo che funziona bene in Tv e sui social anche perché è rivolto a un pubblico ampio, più emotivo e con minori strumenti di analisi».

«Ma nel nostro Paese questa forma di narrazione è indigesta»

La Tv del dolore non ha mai preso piede in Svizzera. «E per fortuna - dice Reto Ceschi, responsabile dell’informazione della Rsi - Da noi c’è una resistenza professionale e culturale a questo genere di programmi. Professionale, perché nella televisione pubblica e privata non si cerca una strumentalizzazione della cronaca per narrare una realtà verosimile. Culturale, perché nel nostro Paese questa narrazione è fortemente indigesta. E lo sarà ancora, me lo auguro, per parecchio tempo».

Secondo Ceschi, il dramma di Vermicino non fu il vero e proprio «inizio della Tv del dolore», quanto piuttosto «la diretta di un fatto di cronaca che la copertura mediatica trasformò in una grande storia collettiva. La Tv del dolore è arrivata dopo. Ed è stata una vera e propria deriva, quasi insopportabile. Una narrazione in cui il vero e il verosimile si sono mescolati soltanto con l’obiettivo di colpire l’immaginario collettivo».

Sacha Dalcol, direttore di Teleticino, individua nella lunghissima diretta di 40 anni fa «l’inizio di un modo nuovo di fare televisione: il racconto senza sosta, la “maratona” che entra nel cuore dei fatti più importanti». La pandemia, prosegue Dalcol, ha rafforzato in qualche modo «il potere delle Tv di narrare in tempo reale, per immagini e parole, ciò che accade. Direi anzi che proprio questo è l’elemento vincente della Tv di oggi; elemento reso ancora più forte dall’alleggerimento delle strutture e dalla possibilità di sfruttare le nuove tecnologie, ad esempio per raggiungere chiunque con un semplice telefonino».

In questo senso, «i social hanno dimostrato la loro forza di piattaforma aggiuntiva di diffusione - conclude il direttore di Teleticino - per quanto di fronte a un evento di grande portata, alla fine, la gente cerca sempre qualcuno che sappia contestualizzare, mettere in relazione». La televisione, insomma.