Dall'esilio di Córdoba al soglio di Pietro, Papa Francesco tra storia e memoria

«Possiamo chiederci: ho mai raccontato a qualcuno la mia vita? […] Si tratta di una delle forme di comunicazione più belle e intime: raccontare la propria vita. Essa permette di scoprire cose fino a quel momento sconosciute, piccole e semplici, ma, come dice il Vangelo, è proprio dalle piccole cose che nascono le cose grandi».
Quando, nel 2024, Francesco diede il via libera alla stampa dei 14 capitoli di Life, l’autobiografia scritta assieme al giornalista Fabio Marchese Ragona e pubblicata da HarperCollins, il progetto editoriale e quello “politico” trovarono una logica e chiara coincidenza. La scelta del pontefice argentino di narrare la «sua storia nella storia» si era compiuta in maniera lineare. In un crescendo di interesse. Destinato a culminare nella rievocazione del conclave del 2013 e nello sguardo sul futuro della Chiesa cattolica.
Oggi, le pagine di Life sono diventate il modo più semplice, e anche il più autentico, per riassumere l’esistenza del primo pontefice argentino.
Ovvio, la vita di un Papa non è minimamente paragonabile ad altre. Dentro c’è un peso specifico della memoria, del tempo, assolutamente raro. E anche la lettura e la riflessione sui fatti, seppure compiute a posteriori, diventano elementi unici e incomparabili di analisi. E probabilmente, è proprio questo, a distanza di tempo, il punto di maggiore interesse delle parole di Bergoglio: non essersi fermato al dato biografico, ma averlo messo in relazione diretta con la storia. Arricchendo così di luce nuova il ricordo di alcuni passaggi nodali del Novecento e degli anni Duemila.
«Un’autobiografia non è la nostra letteratura privata, piuttosto la nostra sacca da viaggio. E la memoria non è solo ciò che ricordiamo, ma ciò che ci circonda. Non parla unicamente di quel che è stato, ma di quel che sarà. La memoria è un presente che non finisce mai di passare», disse in un’altra occasione Francesco.
L’infanzia in Argentina
Ecco allora l’eco molto attutita della Seconda guerra mondiale, percepita da un bambino, in Argentina, soltanto attraverso i discorsi degli adulti. Ma anche lo shock per l’esplosione delle atomiche a Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945, in Giappone; e l’angosciosa scoperta dello sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. E ancora, lo sbarco sulla Luna, vissuto in seminario alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale; e gli anni del golpe del generale Jorge Rafael Videla e della dittatura in patria. «I servizi segreti [argentini] penso mi controllassero - raccontò Bergoglio - e per questo mi arrangiavo in qualche modo per depistarli quando ero al telefono o quando scrivevo qualche lettera. […] Successivamente alcune persone mi hanno confidato che il governo argentino dell’epoca aveva provato in tutti i modi a mettermi il cappio intorno al collo, ma che alla fine non avevano trovato prove perché ero pulito».
Sono moltissimi i passaggi della vita di Francesco di cui varrebbe la pena parlare. Uno dei più interessanti è sicuramente quello che precede la nomina a vescovo ausiliare di Buenos Aires. È il 1990. Bergoglio è a Córdoba, al centro della Pampa, a 650 km da Buenos Aires, in una casa di riposo per gesuiti. «Ritornai a Córdoba en destierro, in esilio per punizione […] - raccontò il Papa - avevo guidato la provincia argentina dei gesuiti, avevo avuto incarichi di grande responsabilità e adesso ero tornato a essere un semplice confessore […]. In quel periodo prevaleva l’oscurità, un’ombra. In quei momenti, la spiritualità ignaziana fu il mio faro, ma sono anche convinto che il Signore mi abbia permesso di vivere quel periodo di crisi per mettermi alla prova e poter leggere meglio nel mio cuore. In quei quasi due anni pensai tanto al mio passato, al mio periodo da provinciale, alle scelte fatte in modo istintivo e personalistico, agli errori commessi per via del mio atteggiamento autoritario, tanto da esser stato accusato di essere ultraconservatore».
Nell’esilio di Córdoba mai Bergoglio avrebbe potuto immaginare la nomina a vescovo, la creazione a cardinale e, infine, l’ascesa sul trono della Chiesa. «A Córdoba rimasi per un anno, dieci mesi e tredici giorni, fino al maggio del 1992: un periodo molto lungo e oscuro della mia vita. Oscuro perché in quel tempo vissi con uno spirito quasi di sconfitta nel cuore, dato che non capivo bene perché fossi stato mandato lì dai superiori, ma accettando quella decisione con obbedienza».
Il conclave e l’elezione
Nel febbraio del 2013, quando Benedetto XVI rinuncia al papato, l’arcivescovo di Buenos Aires vola a Roma per il conclave. «Sulla scrivania del mio ufficio - raccontò - lasciai [il video di] Habemus Papam, il film di Nanni Moretti, che avrei visto sicuramente al ritorno, e due omelie: quella per la Domenica delle Palme e quella per la Messa crismale che avrei dovuto pronunciare quella settimana. Ma le cose andarono diversamente».
Il giorno dell’elezione, il 13 marzo, Bergoglio è consapevole di quanto sta per succedere. «Alla prima votazione fui quasi eletto, e a quel punto si avvicinò il cardinale brasiliano Cláudio Hummes e mi disse: «Non aver paura, eh! Così fa lo Spirito Santo!». E poi, alla terza votazione di quel pomeriggio, al settantasettesimo voto, quando il mio nome raggiunse i due terzi delle preferenze, tutti fecero un lungo applauso. Mentre lo scrutinio continuava, Hummes si avvicinò di nuovo, mi baciò e mi disse quella frase che mi è rimasta sempre nel cuore e nella mente: «Non dimenticarti dei poveri…». E lì ho scelto il nome che avrei avuto da Papa: Francesco. In onore di san Francesco d’Assisi».
Il giorno successivo, «nel pomeriggio, dopo la Messa celebrata nella cappella Sistina, mi portarono a vedere l’appartamento pontificio alla terza loggia del Palazzo Apostolico, ma pensai che fosse troppo esagerato per me: se fossi rimasto a vivere in quel luogo, sicuramente avrei avuto bisogno di uno psichiatra! Per stare bene ho necessità di stare in mezzo alla gente. E così la soluzione ideale fu Santa Marta».
In quel momento, tutto era improvvisamente cambiato. Bergoglio è il primo gesuita a diventare Papa da quando Paolo III, con la bolla Regimini militantis Ecclesiae, il 27 settembre 1540, autorizzò la fondazione della Compagnia accogliendo la richiesta di Ignazio di Loyola. È un uomo nella storia. Un uomo che, tra l’altro, ha scelto di cambiare in profondità la Chiesa, una delle istituzioni più antiche del mondo.
«Gesù non stava al di sopra del popolo, era parte del popolo e camminava insieme a esso. È vero che quella del Vaticano è l’ultima monarchia assoluta d’Europa, e che spesso qui dentro si fanno ragionamenti e manovre di corte, ma questi schemi vanno definitivamente abbandonati e superati. Certi atteggiamenti purtroppo ancora oggi fanno fatica a sparire. C’è sempre, infatti, chi cerca di frenare la riforma, chi vorrebbe rimanere fermo ai tempi del Papa-re, chi sogna un gattopardismo che di certo non fa bene alla Chiesa […]. Io continuo a coltivare un sogno per il futuro: che la nostra sia una Chiesa mite, umile e servitrice».
Le parole di Ratzinger
Chi pensava che Francesco sarebbe stato un Papa di transizione aveva fatto male i propri calcoli. Il pontefice argentino ha regnato per 12 anni spegnendo a più riprese le voci maligne sulla opportunità delle sue dimissioni.
«Qualcuno, negli ultimi anni, soprattutto dopo il gesto storico di Benedetto XVI, si è interrogato sul futuro del Papa - scriveva Bergoglio - Fino a oggi, grazie a Dio, non ho mai avuto motivo di pensare alle dimissioni, perché quella è un’opzione che, dal mio punto di vista, si può prendere in considerazione soltanto se si dovessero presentare gravi motivi di salute. Sono sincero: non ci ho mai fatto un pensiero anche perché, come ho avuto modo di dire qualche anno fa ad alcuni confratelli gesuiti africani, penso che il ministero petrino sia ad vitam e dunque non vedo condizioni per una rinuncia. Le cose cambierebbero se subentrasse un grave impedimento fisico, e in quel caso ho già firmato all’inizio del mio pontificato, come fecero anche altri pontefici, la lettera con la rinuncia che è depositata in Segreteria di Stato. Se questo dovesse succedere, non mi farei chiamare Papa emerito, ma vescovo emerito di Roma e mi trasferirei a Santa Maria Maggiore per tornare a fare il confessore e portare la comunione agli ammalati. Ma questa, ripeto, è un’ipotesi lontana, perché davvero non ho motivi talmente seri da farmi pensare a una rinuncia. Qualcuno negli anni forse ha sperato che prima o poi, magari dopo un ricovero, facessi un annuncio del genere, ma non c’è questo rischio». E così è stato.
La Chiesa è piena di santi, diceva Bergoglio, «ma in alcuni casi è diventata una Chiesa viziosa, proprio perché il clericalismo è vizioso. Se penso alla Chiesa che verrà, mi viene in mente la teoria di Joseph Ratzinger, che parlava di una Chiesa che andrà avanti ma in altro modo: sarà un’istituzione più piccola, più particolare. Era il 1969 e, nel corso di un ciclo di lezioni radiofoniche, il teologo bavarese (all’epoca, il futuro papa Benedetto XVI aveva la cattedra di Dogmatica a Ratisbona dopo aver insegnato tre anni a Tubinga, ndr) tracciava la propria visione del futuro, dicendo che quella che ci aspetta sarà una Chiesa che ripartirà da una minoranza, con pochi fedeli, che rimetterà la fede al centro dell’esperienza; una Chiesa più spirituale, più povera, che diventerà una casa per gli indigenti, per coloro che non hanno perso di vista Dio». La Chiesa plasmata da un uomo «venuto dalla fine del mondo».