L'intervista

«Dietro le tensioni tra Belgrado e Pristina c'è il calo di popolarità dei due Governi»

Le valutazioni di Giorgio Fruscione, analista dell'Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano, sulla crisi che sta infiammando il Kosovo
Una recente marcia di solidarietà a Belgrado in favore dei serbi residenti nel nord del Kosovo che si sentono discriminati dalle autorità di Pristina. ©ANDREJ CUKIC
Osvaldo Migotto
14.12.2022 06:00

Nel nord del Kosovo la popolazione serba attua da alcuni giorni blocchi stradali e barricate per protestare contro l’arresto di un agente serbo della polizia kosovara, e in generale contro la politica di Pristina ritenuta ostile nei confronti della popolazione serba. Belgrado minaccia di intervenire. Sulla gravità della situazione abbiamo sentito le valutazioni di Giorgio Fruscione che ha lavorato nei Balcani.

Lunedì il vicepremier serbo Vucevic ha detto che Belgrado intende inviare un proprio contingente nel nord del Kosovo, a protezione della popolazione serba. Vi è il rischio di scontri armati?

«La richiesta di Belgrado di inviare un proprio contingente non verrà accolta dalla Kfor (la forza militare internazionale guidata dalla NATO, responsabile di ristabilire la pace in Kosovo, n.d.r.). La possibilità di inviarvi fino a mille poliziotti, secondo me è usata dal regime serbo come propaganda interna. Le escalation nella regione servono infatti a ricompattare i serbi intorno all’operato del Governo di Belgrado, per ristabilire l’associazione tra partito di governo e interessi nazionali. Il messaggio è: chiunque non sostenga il partito di governo viene considerato un traditore».

Quindi in questa crisi hanno un grosso peso i risvolti della politica interna serba?

«Sì, e allo stesso modo lo hanno i risvolti della politica interna kosovara. In effetti questa escalation offre il pretesto anche al Governo Kurti di Pristina di ergersi come difensore della sovranità kosovara, che sappiamo essere molto fragile. Per cui il premier Kurti rivendica il controllo dei confini, non accetta che truppe straniere entrino nel suo territorio e cerca di far prevalere la legge kosovara, come abbiamo visto con la questione dello stop alle targhe emesse dalla Serbia per auto che circolano in Kosovo».

In Serbia e in Kosovo vi è un malcontento sociale che si cerca di distrarre con tensioni etniche?

«Sì, c’è anche questo aspetto. Quello che stanno cercando di fare entrambe le parti è di prolungare lo status quo nel breve periodo, in quanto le decisioni vincolanti sul Kosovo possono essere politicamente molto costose, soprattutto per Belgrado. Tuttavia, stando ad alcune speculazioni, si potrebbe presto arrivare a un nuovo accordo quadro tra Belgrado e Pristina».

Lo scorso agosto, grazie all’intervento dell’alto rappresentante UE Borrell, c’è stato il via libera reciproco ai documenti d’identità nazionali alla frontiera tra Serbia e Kosovo. Come valuta tale svolta?

«Quell’accordo ha una portata potenzialmente storica, anche se purtroppo è passato sottotraccia a causa della guerra delle targhe. Era vietato circolare in Kosovo con una targa (serba n.d.r.) non riconosciuta da Pristina, ma i cittadini di entrambi i Paesi potevano passare la frontiera utilizzando il loro documento d’identità. Una novità assoluta in quanto ciò significa che il ministero degli Interni serbo riconosce la validità di un documento su cui c’è una bandiera e una dicitura in albanese, indicante la Repubblica del Kosovo. Quindi oltre a riconoscere l’autorità del documento si riconosce anche l’autorità dell’istituzione che l’ha emesso. Questa tipologia d’accordo ci mostra che il paradigma della reciprocità, così tanto sostenuto dal Governo kosovaro, ovvero il mettere sullo stesso piano i due contendenti, è forse la chiave migliore per arrivare a una soluzione diplomatica della questione Kosovo».

Cos’è cambiato in Kosovo da quando il Paese è guidato dal premier Kurti, esponente di un partito nazionalista di sinistra?

«Albin Kurti rappresenta un elemento di rottura totale con i leader kosovari che lo hanno preceduto. È stato il primo leader a non aver partecipato ai combattimenti della guerra del 1998-1999 in quanto era in cella in Serbia, vittima del regime di Milosevic. Quindi una figura con carisma che si distingue anche per la giovane età, per aver creato un Esecutivo con donne, e quindi rispettoso della parità di genere e guidato da un partito di sinistra. Quanto ai rapporti con Belgrado, Kurti, come detto, ha voluto cambiare paradigma, puntando sulla reciprocità, e da qui è nata la questione delle targhe. Visto che la Serbia non riconosce le targhe kosovare, Pristina pretende che per circolare in Kosovo bisogna avere targhe kosovare».

Nella gestione del Kosovo Kurti ha saputo imprimere una svolta anche nella lotta alla corruzione?

«È più difficile valutare un cambiamento su questi aspetti. Infatti dopo le prime vittorie elettorali del 2020 il partito Vetvendosje (Autodeterminazione) ha subìto un calo di popolarità. La politica interna era prioritaria per Kurti e ora probabilmente cercherà di sfruttare le tensioni con Belgrado per risollevare la propria popolarità».

Come ne esce la comunità internazionale, che dovrebbe favorire il dialogo, da queste tensioni?

«La comunità internazionale uscirà perdente qualora non si renderà conto che alla lunga lo status quo non può essere la soluzione. Continuare a reiterare politiche che mirano a posticipare le decisioni o a mantenere congelati alcuni dossier non risolve i problemi. E questi rimangono congelati finché non esplodono tensioni a livello locale. Un caso simile lo abbiamo avuto con l’inizio della crisi istituzionale in Bosnia nell’estate del 2021. Se la diplomazia internazionale non si attiva per sbloccare in modo più assertivo quelli che sono i dossier aperti, le tensioni torneranno ancora».

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