E la mente torna alle grandi invasioni sovietiche

È un momento di incredulità e orrore per il mondo. Le truppe russe stanno marciando in territorio ucraino. A coprire il ritmico suono degli stivali, solo i bombardamenti e l’incedere dei carri. Rumori terrificanti che l’Europa sperava di essersi lasciata alle spalle, ma che in un attimo tornano a riempire la mente, che non può non correre, suo malgrado, a eventi passati. Le grandi invasioni messe in campo dall’Unione Sovietica nel periodo della Guerra Fredda, ad esempio. Dimostrazioni di forza su territori che l’URSS reputava «di propria competenza» che ricordano tanto quanto sta accadendo oggi nei pressi di Kiev. Allora, a subire la terribile logica della «sfera d’influenza», furono Ungheria, Cecoslovacchia e Afghanistan.
La rivoluzione ungherese
Dopo la morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, molti Stati del blocco sovietico videro un processo di «destalinizzazione». Le élite e le dirigenze stesse si dimostrarono, a diversi livelli, più o meno disposte a mettere in campo delle riforme economiche, politiche e sociali. Tra i Paesi dove più ribollirono spiriti antisovietici vi fu l’Ungheria. E nel 1956, il 23 ottobre, tali fantasmi si materializzarono a Budapest in una manifestazione lanciata dagli studenti dell’Università di tecnologia e di economia. Nel giro di pochi giorni la protesta inglobò milioni di ungheresi, attecchendo soprattutto fra gli operai e divenendo una vera e propria rivolta. Il 30 ottobre venne formato un nuovo governo quadripartito che puntò alla dichiarazione di neutralità e all’uscita dal Patto di Varsavia (la versione sovietica della NATO). Una mossa che l’URSS non poteva accettare: il giorno seguente a Mosca venne deciso l’intervento militare.
Il 4 novembre le truppe dell’Armata Rossa raggiunsero Budapest dando manforte alle unità presenti. La sera stessa la forza della rivolta messa in campo dagli ungheresi era ormai andata perduta: il 10 novembre l’ultima sacca di resistenza chiese il cessate il fuoco. Dopo una ventina di giorni, almeno 2.500 ungheresi (appartenenti sia allo schieramento rivoluzionario che a quello «lealista», ma anche civili) giacevano morti, contro 722 soldati sovietici. Diverse migliaia i feriti.

La Primavera di Praga
Come in Ungheria, ma con qualche anno di ritardo, anche in Cecoslovacchia si osservò un processo di destalinizzazione. Nel ‘68, in particolare, ebbe luogo la cosiddetta Primavera di Praga: un periodo di liberalizzazione nel quale si puntò a ridare diritti e potere democratico ai cittadini cecoslovacchi. Riforme, in particolare quelle legate alla decentralizzazione amministrativa, che non fecero di certo la felicità dell’Unione Sovietica. A preoccupare l’allora leader dell’URSS, Leonid Breznev, c’era anche la volontà del neoeletto Primo segretario cecoslovacco Dubcek di destituire censura e sorveglianza politica. Si temeva, inoltre, che come fatto precedentemente dall’Ungheria anche la Cecoslovacchia fosse tentata dall’idea di abbandonare il Patto di Varsavia.
Rispetto all’invasione dell’Ungheria, quella della Cecoslovacchia prese più tempo: inizialmente i sovietici tentarono la via dei negoziati. I delegati di Praga riaffermarono la loro fedeltà al Patto di Varsavia, promettendo di controllare la stampa attraverso la reimposizione di un livello superiore di censura. In contropartita, l’Unione Sovietica concordò il ritiro delle truppe, che lasciarono il territorio cecoslovacco rimanendo però lungo i confini. Fu una cospirazione ai danni di Dubcek a cambiare le carte in tavola e a spingere i sovietici a cercare di cogliere l’occasione per invadere il territorio cecoslovacco. Il 20 agosto del 1968 un esercito da mezzo milione di uomini composto da truppe provenienti da URSS, Bulgaria, Polonia e Ungheria penetrò nella Cecoslovacchia. Romania e Albania, pur facendo parte del Patto di Varsavia, decisero di non prendere parte all’invasione.
Rapidamente l’aeroporto di Praga cadde nelle mani dell’Armata Rossa, mentre le truppe sovietiche prendevano il controllo della capitale e degli altri centri importanti, senza che l’esercito cecoslovacco opponesse resistenza. Durante l’attacco persero la vita 137 cecoslovacchi, i feriti furono centinaia.
Nel 2007 Putin stesso riconobbe la responsabilità morale (non quella legale) dell’invasione, riprendendo le parole del suo predecessore, Boris Elcin, che definì l’attacco «un’aggressione a uno Stato sovrano, un’interferenza nei suoi affari interni».
Ai fatti di Praga è legato anche il ricordo di Jan Palach, il primo di cinque amici che – nel 1969 – decisero di immolarsi per manifestare il loro dissenso nei confronti dell’Unione Sovietica. Nel pomeriggio del 16 gennaio il giovane si recò in piazza San Venceslao, nel centro di Praga, fermandosi ai piedi della scalinata del Museo Nazionale e si diede fuoco dopo essersi cosparso il corpo di benzina.

Contro i mujaheddin
L’influenza dell’Unione Sovietica sull’Afghanistan si estese particolarmente negli anni ‘50, quando sulla nazione, importante crocevia, vennero riversati importanti aiuti militari ed economici. Un sostegno che portò, nel 1978, all’instaurazione di una forma di Stato socialista alla cui testa si impose Hafizullah Amin. Peccato che per guidare il nuovo Governo l’URSS avrebbe visto ben più volentieri un uomo più fedele alle proprie politiche. Di qui la decisione di invadere l’Afghanistan, uccidere Amin e sostituirlo con Babrak Karmal. A fine dicembre 1979 la missione era formalmente compiuta, ma l’insorgere dei mujaheddin (finanziati da una serie di Paesi occidentali) trascinò il conflitto sui 10 anni seguenti.
Quando l’esercito sovietico si ritirò nel febbraio del 1989, fra i 600 mila e i 2 milioni di civili afghani erano morti. Decine di migliaia le perdite fra i militari di entrambi gli schieramenti.
Una serie di complicati scontri tra diverse fazioni ha poi portato il Paese nell’instabilità nella quale giace ancora oggi.
