La biografia

Ecco chi è Baradar, nuovo capo del Governo afghano

Amico d’infanzia e sodale del mullah Omar, ha condotto dal 2018 le trattative di Doha per il ritiro delle truppe americane - Un rapporto di un centro di ricerca indipendente lo accusa per il massacro di Dasht-e Chirchirik
L’ex segretario di Stato americano Mike Pompeo ha incontrato Abdul Ghani Baradar a Doha lo scorso novembre. / © AP/Patrick Semansky
Dario Campione
04.09.2021 14:02

Il mullah Abdul Ghani Baradar, si appresta a diventare il nuovo capo del Governo afghano. L’annuncio della sua ascesa al potere dovrebbe essere ufficializzato in queste ore: ieri la Reuters, citando fonti interne agli islamisti, dava ormai per certo l’incarico. Nell’ufficio politico dei talebani dovrebbero trovare posto anche il mullah Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar, e Sher Mohammad Abbas Stanekzai, uno dei negoziatori degli accordi di Doha, già viceministro della Difesa e della Sanità tra il 1996 e il 2001. Maulawi Hibatullah Akhunzada, invece, sarà nominato, con ogni probabilità, capo religioso e guida suprema del Paese, sul modello dall’Iran degli ayatollah.

Leader sopravvissuto

Come ha scritto l’Associated Press all’indomani del ritorno degli studenti coranici a Kabul, a metà agosto, la biografia di Baradar «traccia l’intero arco del percorso» compiuto dei talebani: da militanti islamici che hanno combattuto i signori della guerra durante il conflitto civile negli anni ’90, a governanti secondo una rigida interpretazione della Shari’ah, a ribelli insurrezionalisti che per due decenni si sono opposti agli Stati Uniti e alle forze NATO di occupazione. Ma getta anche luce sulle complicate e ambigue relazioni che gli stessi talebani hanno intrattenuto con il Pakistan.

Baradar è l’unico leader talebano della prima ora sopravvissuto a 30 e più anni di lotta armata. Fu nominato personalmente vice dal primo comandante, il mullah Mohammed Omar (di cui, si dice, fosse cognato avendone sposato la sorella), cosa che gli concede, almeno agli occhi dei miliziani pashtun, uno status quasi leggendario all’interno del movimento. Fin qui è stato molto più visibile del leader supremo, Hibatullah Akhunzada (tuttora rifugiato molto probabilmente in Pakistan), anche per ragioni pratiche: dal 2018 ha infatti condotto le trattative con Washington per il ritiro ordinato delle truppe americane dall’Afghanistan.

Una storia conosciuta

Una cosa si può affermare con certezza: Abdul Ghani Baradar è tutt’altro che uno sconosciuto. Di lui si sa molto, anzi moltissimo. In una biografia pubblicata alla fine del 2013, Kate Clark, co-direttrice e senior analyst dell’ANN (Afghanistan Analysts Network), spiegava come Baradar fosse già all’epoca «un comandante militare di grande esperienza e un appassionato stratega politico». Investito giovanissimo di un ruolo importante nell’organizzazione dell’insurrezione seguita alla fuga dell’esercito sovietico, alla fine degli anni ’80, è anche un rigido assertore dei dettami dell’ideologia coranica talebana: secondo Anand Gopal, sociologo dell’Arizona State University e tra i massimi studiosi USA dell’Afghanistan, dietro la stesura originale del codice di condotta talebano, il Layha, ci sarebbe proprio Baradar, uno dei primi a capire che «il conflitto contro l’Unione Sovietica prima e le potenze occidentali dopo ha sempre riguardato in primo luogo i cuori e le menti».

Al centro del movimento sin dalle fasi iniziali, Baradar - così come il mullah Omar - è originario di Dehrawod, nella provincia dell’Uruzgan, ma è cresciuto in una madrasa di Kandahar. Di etnia pashtun, come quasi tutti i talebani, è nato nel 1968 e appartiene alla stessa tribù Popalzai dell’ex presidente Hamid Karzai, con il quale non a caso mantiene tuttora strette relazioni personali e politiche.

L’amicizia con il mullah Omar

Baradar e il mullah Omar diventarono amici combattendo l’uno a fianco dell’altro nello stesso squadrone durante l’invasione sovietica. Insieme fondarono il movimento dei talebani nel 1994, anche se, dice Clark, «a quel tempo Baradar non era ancora uno dei leader chiave».

In poco tempo, tuttavia, con la crescita della forza degli studenti coranici nel Paese, anche Baradar acquisì maggiore influenza, sempre rimanendo all’ombra del mullah Omar. «Ricoprì infatti una serie di incarichi, quasi tutti militari: capo della zona Sud-occidentale, forse per breve tempo governatore di Herat (1998), capo dell’esercito centrale e del Corpo d’armata a Kabul, vicecapo di gabinetto della Difesa nel 1999. Occasionalmente, fu anche il sostituto del ministro della Difesa, il mullah Hadji UbaidullahAkhund», morto poi nel 2010 in una prigione pakistana per un attacco di cuore. Durante il primo governo talebano «fu attivamente coinvolto nella guerra su vari fronti». Un rapporto pubblicato dall’Afghanistan Justice Project (AJP), centro indipendente di ricerca e documentazione fondato alla fine del 2001, sostiene che Baradar, nel 1997, era a Kunduz, la prima roccaforte settentrionale dei talebani, quando gli studenti coranici attaccarono, catturarono e poi persero Mazar-e Sharif; fu anche comandante della piazza di Balkhab, nella provincia del Sari Pul, una delle enclavi dell’Alleanza del Nord, nel 1999. Lo stesso rapporto afferma che, come vicecapo di gabinetto della Difesa, durante l’offensiva sullo Shomali, sempre nel 1999, «ordinò personalmente sul campo i massacri e l’esecuzione sommaria degli 11 membri del personale della base aerea di Dasht-e Chirchirik, il 3 agosto».

La lettera a Karzai

Dopo l’intervento statunitense del 2001 e l’inizio di “Enduring Freedom”, Baradar venne coinvolto nel più significativo tentativo di resa dei talebani. Fu lui, secondo Gopal, a essere incaricato dal mullah Omar di consegnare una lettera ad Hamid Karzai, allora designato dalla Conferenza di Bonn come nuovo presidente ad interim dell’Afghanistan. Nella lettera, il mullah Omar riconosceva che l’Emirato Islamico non aveva alcuna possibilità di sopravvivere e dichiarava la propria disponibilità ad accettare la leadership di Karzai. Come contropartita, i talebani chiedevano l’immunità dall’arresto, promettendo di «astenersi dalla vita politica».

Assieme a Baradar, la delegazione inviata da Mohammed Omar era composta dal ministro della Difesa Hadji Ubaidullah Akhund, dal segretario personale dello stesso Omar, Tayyeb Agha, e dal ministro dell’interno Abdul Razaq (omonimo, tra l’altro, del ministro del Commercio).

Così come altri tentativi di riconciliazione, anche questo, scrive Gopal, «cadde su una pietraia» e a Baradar non restò che la via insurrezionale.

La fuga, l’arresto, il ritorno

Dopo la caduta del regime talebano, il mullah Omar, l’Amir ul-Mu’menin dei talebani (letteralmente, il comandante dei credenti), rimase a lungo nascosto e in isolamento, per poi morire di tubercolosi nel 2013. Hadji Ubaidullah Akhund era il numero due nella gerarchia e Baradar il numero tre. Quando Akhund venne arrestato in Pakistan all’inizio del 2007, Baradar assunse il ruolo di capo operativo del movimento e della Quetta Shura, l’organizzazione combattente creata nell’omonima città pakistana del Belucistan in seguito alla caduta dell’Emirato afghano.

In un lungo reportage, il settimanale Newsweek, nel 2009, lo descrisse quale «terrorista capace e astuto» e lo indicò, citando fonti militari USA, come «il responsabile del picco di vittime» patito quell’anno dalla coalizione occidentale. Poi, nel febbraio 2010, all’improvviso, Baradar venne arrestato grazie a un’operazione congiunta della CIA e dell’ISI, i servizi di intelligence di Karachi. Dopo averlo ospitato e protetto per quasi 10 anni sul proprio territorio, il Pakistan aveva deciso di cambiare rotta sia per le pressioni americane, sia per una sorta di ritorsione verso lo stesso mullah afghano, accusato di aver instaurato contatti non autorizzati con l’amico Hamid Karzai: questo, almeno, raccontò il fratellastro di Karzai, Ahmad Wali, che prima di essere assassinato (il 12 luglio 2011) da una delle sue più strette guardie del corpo, Sardar Mohammad, era l’uomo più potente del Sud afghano.

Il resto è cronaca. Nel 2018, Baradar viene liberato su richiesta dell’amministrazione Trump e trasportato in aereo in Qatar, dove entra a far parte della squadra negoziale dei talebani. In breve assume il ruolo di controparte dell’inviato speciale della Casa Bianca, Zalmay Khalilzad, con il quale redige gli accordi di Doha e il trattato di pace del febbraio 2020. A Doha incontra anche l’allora segretario di Stato americano Mike Pompeo e il 23 agosto scorso, a Kabul, vede in segreto il direttore della CIA William J. Burns, al quale chiede di tenere aperta l’ambasciata degli Stati Uniti.

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