Tariffe

«Economia e politica devono parlare con una voce sola»

Il Consiglio federale vuole continuare a negoziare con gli Stati Uniti per ridurre i dazi - Monika Rühl: «Un accordo al 15% come l'UE, ora come ora, sarebbe già un successo» - Non ci saranno contromisure nei confronti di Washington: la Svizzera prova a fare concessioni
©PETER KLAUNZER

«Un’offerta più interessante». Il Consiglio federale, dopo la pesante stangata annunciata il 1. agosto da Donald Trump, vuole proporre un’altra intesa alla Casa Bianca. Un accordo commerciale che, con tutta probabilità, porterà in dote maggiori concessioni per gli Stati Uniti. Berna ha infatti deciso di non alzare i toni dello scontro commerciale con Washington: «Al momento il Consiglio federale non intende adottare contromisure». Tradotto: nessun controdazio e nessuna ritorsione nei confronti degli USA.

L’obiettivo dell’Esecutivo - che si è riunito oggi in una seduta straordinaria - è infatti di continuare i negoziati e trovare un accordo migliore del 39% imposto dal presidente statunitense e valido a partire dal prossimo 7 agosto. I dazi di Trump andranno infatti a colpire «quasi il 60% delle merci svizzere esportate negli Stati Uniti», ricorda il Consiglio federale, che auspica invece «buone condizioni quadro per l’economia».

«Una soluzione rapida»

Una situazione di incertezza, ulteriormente acutizzata dalla decisione di Trump, che complica i piani dell’economia. «Ci aspettiamo che il Governo e la diplomazia economica trovino una soluzione con la massima rapidità. Ma siamo convinti che il Consiglio federale stia andando nella buona direzione», spiega al Corriere del Ticino Monika Rühl, direttrice di Economiesuisse, la federazione delle aziende elvetiche. Un rapido accordo, tuttavia, potrebbe non significare il miglior accordo possibile. «Per le imprese svizzere è fondamentale trovare una soluzione vantaggiosa. Abbiamo fiducia nel Consiglio federale e sosteniamo i suoi sforzi. Non abbiamo alternative», sottolinea Rühl, aggiungendo che «ora economia e politica devono parlare con una voce sola nei confronti degli Stati Uniti per trovare una soluzione».

Nessun passo falso

Dopo l’annuncio di Trump, sono tuttavia piovute critiche sul Consiglio federale e sulla presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter. Per la direttrice di Economiesuisse, la Svizzera ha fatto passi falsi in questo negoziato? «No, non riteniamo che siano stati fatti errori», spiega Rühl, ricordando che la squadra negoziale elvetica era già riuscita a «trovare un accordo che è anche stato approvato da tre ministri statunitensi (tra cui il segretario al Tesoro Scott Bessent e il rappresentante per il Commercio Jamieson Greer, ndr). Purtroppo, non è stato sufficiente per essere accettato anche da Donald Trump». Per il presidente statunitense, serve di più per compensare il «deficit commerciale» tra USA e Svizzera. Il mondo imprenditoriale è dunque chiamato a fare la sua parte, perché senza l’aiuto dell’economia, il Consiglio federale difficilmente riuscirà a raggiungere un’intesa che possa incontrare i favori del tycoon.

Strategia negoziale

«Per trovare un “deal” andranno fatte delle concessioni. In questa fase è però difficile e prematuro parlare di concessioni specifiche che le imprese svizzere devono o possono fare», sostiene la direttrice di Economiesuisse. Bocche cucite anche dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO), che «per motivi di strategia negoziale» non può rivelare quali sono i possibili settori interessati dall’accordo con gli USA. Né, ovviamente, quali sono gli obiettivi concreti dei negoziati.

La Svizzera vuole trovare un accordo commerciale con Washington e l’obiettivo è di ottenere «un trattamento equo rispetto ai suoi principali concorrenti». Ma un’aliquota come quella imposta all’Unione europea, per Economiesuisse, sarebbe sostenibile? «Sì, oggi come oggi, il 15% come l’UE sarebbe già un successo. Anche se si tratta di un 15% di troppo rispetto a prima. In questo modo, però, non avremmo uno svantaggio competitivo importante con l’Unione europea», spiega Rühl, ricordando che Bruxelles rappresenta anche il partner commerciale più importante per la Svizzera. Il Consiglio federale, dal canto suo, ricorda che i dazi al 39% sono «particolarmente elevati rispetto ad altri partner commerciali degli USA con una struttura economica comparabile», citando Regno Unito (10%), nonché UE e Giappone (entrambi 15%).

Preoccupazione e fiducia

Mancano ormai pochi giorni all’entrata in vigore dei dazi, prevista il prossimo giovedì. Monika Rühl, dal canto suo, auspica che si possa trovare un’intesa prima del 7 agosto. «Sarebbe un vantaggio, anche perché le imprese già devono convivere con una persistente incertezza generale. È comunque difficile fare previsioni», spiega la direttrice di Economiesuisse.

Oggi, la SECO ha tenuto un incontro con i rappresentanti dell’economia. Sebbene i colloqui siano confidenziali, qual è il clima generale? «C’è forte preoccupazione, ma allo stesso tempo l’economia ha fiducia nel Consiglio federale. Da parte mia, cerco di mantenere un ottimismo di base, senza però farmi troppe illusioni», sottolinea Rühl, ricordando che la SECO ha organizzato vari briefing dallo scorso 2 aprile a oggi per tenere informato il mondo economico e i settori che potrebbero essere maggiormente colpiti. Rühl cita ad esempio il settore  dell’orologeria, della tecnologia di precisione, il settore tech e l’industria dei macchinari, ma anche dell’industria tessile e alimentare. «Oltre al settore specifico, dipende anche dalla singola impresa, perché per molte aziende gli USA rappresentano il primo mercato d’esportazione. È però ancora presto per valutare quali possano essere le conseguenze di dazi così importanti (per l’USAM «sono a rischio decine di migliaia di posti di lavoro in Svizzera, ndr). Per il momento non abbiamo ancora fatto calcoli». In ogni caso, aggiunge la direttrice di Economiesuisse, «sulla base delle difficoltà attuali con gli Stati Uniti dobbiamo trarre un insegnamento: dobbiamo avere cura della nostra piazza economica. Dobbiamo mantenere la nostra attrattiva, anche attraverso misure interne. Meno costi per le nostre imprese, meno burocrazia, meno regolamentazione».