«Genova, e ancora brucia il ricordo delle strade messe a ferro e fuoco»

«La spianata era deserta e dalle strade del centro saliva un confuso e sordo rumore. Il brulicare della vita di una qualunque sera d’agosto, nella città che sembrava solo aspettare la notte per andare a dormire, e la fine delle ferie estive per riprendere il suo consueto tran tran di provincia. Ma quella non era una qualunque sera d’agosto. Era trascorso poco più di un mese dalla tragedia del G8. L’evento che doveva mettere Genova in vetrina, e vendere i fasti della sua immagine al mondo. E ancora bruciava il ricordo delle strade messe a ferro e fuoco da una violenza gratuita e senza scopo. Dei cortei avvolti dal denso fumo dei lacrimogeni. Dei feroci pestaggi della polizia. Dei lividi impressi sulla carne viva del buonsenso come indelebili testimonianze di una sconfitta, brutale stupidità. E la città si portava dentro la morte di quel ragazzo come una ferita inutile, evitabile e, proprio per questo, difficile da sanare. Ma quel dolore era il suo, e non voleva che se ne parlasse troppo. Quasi contenta all’idea che il mondo si sarebbe presto dimenticato di lei». Nella narrazione di Bruno Morchio, scrittore genovese DOC - il libro è «La creuza degli ulivi» (Garzanti, 2005) -, dai fatti del G8 era passato un mese appena. Oggi sono passati vent’anni. Ma la città non ha ancora assorbito quei giorni, che tornano vividi nella memoria di chi tuttora la vive. «Genova, ha i giorni tutti uguali», cantava Paolo Conte.
Dimenticare e ricordare
I fatti del G8 di Genova sono racchiusi in tanti saggi a essi dedicati. Risalgono al lungo weekend di terrore del luglio 2001, da giovedì 19 a domenica 22. Da una parte la riunione del G8 - guidata da Silvio Berlusconi, allora premier -, dall’altra le manifestazioni e quindi gli scontri, che portarono all’uccisione del 23.enne manifestante Carlo Giuliani - per mano del 20.enne Mario Placanica, allora carabiniere di leva - e al violento assalto alla scuola Diaz da parte delle forze di polizia. Ci sono immagini che non riusciamo, ancora oggi, a toglierci dalla mente. E vorremmo tanto. Lo stesso Bruno Morchio, da noi interpellato, spiega: «È una pagina della nostra storia che vorremmo dimenticare, ma che al contempo va ricordata per ciò che ha rappresentato. Non possiamo dimenticarla». Morchio partecipò alle prime manifestazioni, quelle del giovedì. Le ricorda pacifiche. Ricorda i tanti giovani, il clima quasi di festa, pur tra le preoccupazioni generalizzate di ciò che avrebbero potuto essere i giorni a venire. Poi partì per lavoro e ritornò la domenica, ritrovando una città trasformata, dal volto a quel punto tumefatto, sfatta e svilita. Violentata. «I genovesi erano indignati. Lo erano già alla vigilia, osservando la loro città ingabbiata. Erano arrabbiati. Ciò che è successo poi è storia». Ricordiamo il corteo che avanzava proprio con uno striscione: «La storia siamo noi». Un triste presagio.
Le porte aperte delle case
All’epoca Bruno Morchio ancora svolgeva la sua professione originale di psicologo. Ha ritrovato quei fatti anche nella sua quotidianità, in quella dei pazienti. «Quei fatti sono rimasti nell’immaginario, nelle fantasie e nei racconti dei genovesi. Hanno lasciato un segno, indelebile. Un segno tra l’altro già anticipato. La paura era emersa già nei giorni e nelle settimane precedenti il G8. La paura di ciò che sarebbe potuto accadere. Un alone di timore aveva già investito Genova, ma non le impedì, non impedì alla sua gente, di scendere in piazza e manifestare festosamente. Poi, dopo quanto accaduto, dopo la morte di Carlo Giuliani, dopo le violenze gratuite alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, è rimasta forte questa traccia di memoria, con un misto tra paura, sì, rabbia, ma anche difficoltà a capire il perché, a dare un senso a quanto accaduto». Quella traccia di memoria viene e verrà tramandata anche in forma scritta. Come in Morchio, anche altri scrittori l’hanno fermata e la fermeranno nei propri romanzi. «Io l’ho raccontata perché non potevo non raccontarla, raccontando la Genova della contemporaneità. È una vicenda emblematica per la città, che terremo bene a memoria, per dirci che certe cose non devono succedere più. Ma anche per aiutarci a leggere certe prese di posizione di parte del mondo politico. Chi difese la repressione delle manifestazioni allora, oggi si propone come paladino della libertà individuale di fronte al coronavirus. Ma questo è un altro discorso». La voce di Morchio si rompe nel riportare a galla gli atti di violenza dell’epoca, ma torna solare nel narrare della forte mobilitazione solidale da parte della sua città. «A Genova è rimasta un’infinità di episodi di persone che hanno agito con il bene di fronte alla repressione, dando riparo ai manifestanti, aprendo le porte delle loro case. E i genovesi non le aprono facilmente». Sorride, Morchio, che poi torna amaro, sottolineando: «Le ragioni di quelle manifestazioni, al netto degli episodi di violenza perpetrati anche dalle frange più violente dei manifestanti, erano giuste. Ma la battaglia, anche al di là di Genova, è stata persa».