«Gli agricoltori protestano a causa dei prezzi irrisori»

Sono passati diversi anni dalla rivolta di Nardò del 2011. Cosa è rimasto oggi di quell’intensa stagione di scioperi?
«Nell’opinione pubblica lo sciopero di Nardò ha suscitato una dinamica culturale e politica che ha portato a dei piccoli cambiamenti, ma significativi. Il Governo italiano ha preso finalmente atto di un problema che faceva finta di non vedere. Il caporalato oggi è a tutti gli effetti un reato che si cristallizza nella Legge 199, approvata nel 2016. A questo sono seguite numerose inchieste e l’attenzione su queste problematiche è cresciuta, ma soprattutto si è cominciato a parlare di agricoltura di qualità».
Parlando di agricoltura di qualità, da settimane migliaia di agricoltori manifestano in tutta Europa chiedendo un cambio delle politiche UE. Come si inseriscono in questa prospettiva?
«Le difficoltà portate alla luce dalle proteste degli agricoltori, come nel caso del caporalato, non sono che gli effetti di un sistema economico ultracapitalistico e ultraliberista che lascia il potere assoluto nelle mani della grande distribuzione organizzata e che indicano l’urgenza di un cambiamento totale. Gli agricoltori si trovano schiacciati dai prezzi irrisori imposti dalle catene di supermercati, le uniche a trarne benefici. Ma chi dovrebbe decidere il prezzo di un prodotto agricolo? Chi lo compra, ossia il supermercato o chi lo produce? Il buonsenso vorrebbe che il prezzo venisse deciso dal produttore, perché è lui che sa quanto ha speso, invece accade il contrario. Un sistema perverso».
Dall’introduzione della legge, com’è cambiato il caporalato in questi anni?
«Cambiamenti sostanziali non ci sono stati. Non basta un’azione normativa per risolvere un problema di tale entità. Arrivare a un arresto significa che siamo già di fronte a un fallimento. Chi produce questo sistema non sono solo i caporali, che reclutano e sfruttano la manodopera gestendo in forma illegale la domanda e l’offerta di lavoro. È necessario intervenire anche sulla prevenzione, che è quello che manca. Bisognerebbe educare, presidiare il territorio e i rapporti con l’Unione europea partendo dalla Politica Agricola Comune (PAC) che promuove gli agricoltori legando i finanziamenti europei alla qualità del lavoro».
Un fenomeno che tocca anche la Svizzera?
«La Svizzera non è immune da queste dinamiche. Credo che l’unico modo per combattere queste situazioni sia una maggiore pressione da parte dei consumatori nell’esigere prodotti che siano sostenibili sia dal punto di vista sociale sia ambientale».
Nel 2022 ad esempio l’Italia ha prodotto più pomodori di qualsiasi altro Paese europeo, per un giro d’affari di 4,9 miliardi di euro. Come possiamo interpretare questo dato e inserirlo nel tema del caporalato?
«La problematica legata alla raccolta del pomodoro è che il suo fatturato è altissimo ma va a beneficio di una minoranza, rappresentata dalle catene dell’industria agroalimentare. Gli altri attori coinvolti, come gli agricoltori, che sono quelli che producono, vedono le briciole. Per i lavoratori è ancora peggio. La criminalità organizzata è inoltre da anni infiltrata in questo settore e continua a controllare molti aspetti della filiera, dalla manodopera al trasporto, fino alla distribuzione. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Agromafie, nel 2019 il settore agroalimentare ha rappresentato il 10% del ricavato complessivo di tutte le attività criminali mafiose in Italia. Una cifra corrispondente ad almeno 24,5 miliardi di euro».
Quello dei ghetti è un fenomeno ormai cronico. Sono oltre cento gli insediamenti presenti sul territorio italiano, per lo più tra Puglia e Sicilia, Calabria e Campania.
«Spesso pensiamo erroneamente che il problema dello sfruttamento sia concentrato al Sud, il 55% delle inchieste e delle indagini legate allo sfruttamento riguardano invece il nord del Paese. Si tratta di un modello di potere che estende la sua rete di ricatto su tutto il territorio italiano, parliamo quindi di un problema che è nazionale e che va quindi affrontato da un punto di vista strutturale. Lo sfruttamento nel mondo agricolo è inoltre un problema trasversale, non riguarda solo i migranti e gli uomini. Sono tantissime le donne, anche italiane che vivono la stessa situazione».
Ma i controlli sono almeno aumentati?
«I controlli continuano ad essere pochissimi. È inaccettabile che un Paese come l’Italia abbia solo cinquemila ispettori per oltre un milione di imprese agricole. In questo modo lo Stato favorisce queste impunità, che continuano a produrre illegalità. Serve una riforma dell’ispettorato del lavoro».
Nei suoi libri Ama il tuo sogno. Vita e rivolta nella terra dell’oro rosso (Fandango, 2012) e Ghetto Italia. I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento (Fandango, 2015), lei ha raccontato la quotidianità dei ghetti. Come si vive in questi luoghi?
«Per capire davvero cos’è il sistema pugliese della schiavizzazione e della segregazione nei ghetti dei braccianti stranieri, è necessario visitare le campagne foggiane nel pieno della stagione estiva della raccolta. La marginalità non è rappresentata soltanto dalla precarietà occupazionale, ma dall’assenza dei diritti fondamentali. Le condizioni di vita imposte ai lavoratori sono inumane e degradanti. Senza l’apporto di questa manodopera l’economia italiana stenterebbe o crollerebbe in alcuni settori, queste persone vanno considerate a tutti gli effetti come dei lavoratori».