Greta Cristini a Lugano: «La sicurezza digitale è il nuovo linguaggio della libertà»

ATED – Associazione Ticinese Evoluzione Digitale riunisce anche quest’anno a Lugano esperti, professionisti e istituzioni per riflettere sulle nuove frontiere della sicurezza digitale. Il Cyber Security Day 2025, in programma il 29 ottobre all’Asilo Ciani dalle 14.00 alle 20.00, giunge alla sua terza edizione con un titolo che racchiude la sfida del presente: «Cybersecurity e intelligenza artificiale – Sfide e opportunità per un futuro digitale sicuro».
L’evento, sostenuto da partner pubblici e privati, proporrà un pomeriggio di workshop e dimostrazioni pratiche e una parte serale dedicata alla riflessione strategica, moderata da Luca Mauriello, presidente di ated.
Accanto a specialisti e manager del settore, interverrà Greta Cristini, analista geopolitica, reporter e scrittrice, che porterà uno sguardo internazionale su come il cyberspazio sia diventato un campo di potere e vulnerabilità per Stati e aziende. Già avvocata anticorruzione a New York, collaboratrice di Limes e autrice del podcast «Il Grande Gioco», Cristini ha seguito i fronti di guerra in Ucraina, Israele e Palestina, raccontando sul campo come la tecnologia stia cambiando il modo di fare politica, informazione e conflitto.
Partiamo dal suo intervento: che cosa intende per «geopolitica
del cyberspazio» e perché oggi è una lente necessaria?
Lo spazio digitale è diventato a tutti gli effetti un
dominio del confronto tra potenze, accanto a terra, mare, aria e spazio. In
questo ambito, però, la distinzione classica tra Stati e attori non statali si
assottiglia fino quasi a scomparire: gruppi di hacker, collettivi informali,
imprese o singoli individui possono infliggere danni reali a istituzioni
pubbliche e infrastrutture critiche. Proverò a mostrare come questa geopolitica
si manifesti – dallo spionaggio informatico ai sabotaggi, dalle campagne di
disinformazione alla gestione delle reti e delle filiere digitali –
evidenziando come tutto ciò abbia ampliato il concetto di sicurezza nazionale
fino a includere la «sovranità digitale».
Chi sono, oggi, i principali attori di questo scontro nel
mondo cibernetico?
Gli Stati restano i principali detentori di capacità, ma si
muovono sempre più spesso attraverso soggetti ibridi: strutture militari e di
intelligence, gruppi semi-ufficiali, centri di ricerca e grandi aziende
tecnologiche. Assistiamo a una rete di alleanze temporanee e di interdipendenze
sempre più fitte: chi controlla piattaforme, microchip e servizi digitali
controlla anche porzioni crescenti di potere. In questo contesto, l’Europa –
che non ha ancora espresso veri protagonisti industriali globali nel campo
tecnologico – rischia di restare terreno di competizione, più che soggetto
autonomo.
In che modo l’intelligenza artificiale sta cambiando la
natura della minaccia e della difesa?
L’intelligenza artificiale accelera tutto. Sul fronte
offensivo, automatizza il riconoscimento dei bersagli, i tentativi di
intrusione, la generazione di codici dannosi e persino i video manipolati. Sul
fronte difensivo, consente invece di individuare anomalie, prevenire attacchi e
reagire in tempi ridottissimi. Ma la trasformazione più profonda riguarda il
rapporto tra pubblico e privato: tecnologie nate per l’impresa vengono sempre
più integrate nella sicurezza nazionale. Il caso dell’azienda statunitense
Palantir, fondata dopo l’11 settembre per colmare lacune nella gestione dei
dati sensibili e poi divenuta partner dei governi, è esemplare. Detto ciò, la
cosiddetta «guerra dei robot» è ancora lontana: anche quando l’intelligenza
artificiale è impiegata in sistemi d’arma, l’uomo resta al centro del processo
decisionale.
Nei conflitti attuali colpisce lo scarto tra tecnologie
sofisticate e modalità «antiche» di combattimento. È una contraddizione o il
segno di un passaggio d’epoca?
È il segno della transizione. In Ucraina convivono trincee e
droni, guerra di logoramento e attacchi digitali, strumenti ottocenteschi e
innovazioni radicali. In Medio Oriente, una tregua fondata su pochi punti
d’accordo si scontra con nodi irrisolti – il disarmo di Hamas e il ritiro
dell’esercito israeliano – che ne compromettono la durata. In entrambi i casi,
la lezione per l’Europa è evidente: la resilienza delle infrastrutture civili –
energia, reti, finanza, sanità, comunicazioni – è parte integrante della
difesa. Proteggere ciò che tiene in vita un Paese significa difendere anche la
sua sovranità.
Che cosa dovrebbe fare l’Europa per non restare ai margini
della competizione tecnologica globale?
Tre priorità. Primo: infrastrutture. Occorre un «cloud»
europeo per la gestione dei dati strategici, criteri comuni di sicurezza per le
reti di nuova generazione e norme chiare per le catene di approvvigionamento,
incluse quelle extraeuropee. Secondo: industria. Bisogna sostenere la crescita
di imprese europee nei settori chiave – semiconduttori, intelligenza
artificiale applicata alla sicurezza, crittografia avanzata – attraverso
investimenti coordinati e alleanze pubblico-private. Terzo: persone. Servono competenze
specialistiche, formazione costante e un dialogo più stretto tra università,
amministrazioni e aziende. Senza una base interna solida, la sovranità digitale
resta un obiettivo lontano.
Sul piano politico, che cosa si aspetta dagli Stati Uniti
rispetto al conflitto in Ucraina?
Washington non interromperà i contatti con Mosca – non lo ha
fatto nemmeno nei momenti più tesi della Guerra fredda – ma cercherà di ridurre
la propria esposizione diretta, spingendo l’Europa ad assumersi maggiori
responsabilità nella fornitura di sistemi di difesa. Per la Russia, però, la
guerra è ormai una questione di sopravvivenza politica, e questo rende
difficile immaginare un accordo stabile nel breve periodo. Ci muoviamo in uno
scenario di negoziati intermittenti, pressioni economiche mirate e una crescente
necessità per l’Europa di rafforzare la propria autonomia energetica e
industriale.
E sul fronte mediorientale? La tregua a Gaza può davvero
durare?
È più un cessate il fuoco condizionato che una pace. Regge
sugli scambi di prigionieri e sugli aiuti umanitari, ma resta fragile: il
disarmo di Hamas e il ritiro dell’esercito israeliano sono punti ancora
irrisolti. Una stabilizzazione reale richiederebbe una forza internazionale con
un mandato chiaro e una regia arabo-musulmana in grado di mediare tra le parti,
ma oggi questi presupposti non ci sono. Nel frattempo, il peso crescente
dell’ala più radicale nel governo israeliano rende ogni compromesso ancora più
difficile.
Che cosa spera che emerga dal confronto di Lugano sulla
sicurezza digitale?
Spero che passi l’idea che la cybersicurezza non è più una
questione tecnica, ma strategica e culturale. Riguarda la solidità delle
democrazie, la competitività delle economie e la capacità di ogni Paese di
decidere del proprio futuro tecnologico. In un mondo in cui il potere si misura
in infrastrutture e in dati, la sicurezza digitale è diventata il linguaggio
stesso della libertà.
