Gli scontri

Haiti è un Paese in fiamme: «Non esiste un posto sicuro»

Da mesi la situazione sull'isola caraibica, uno degli Stati più poveri al mondo, è grave – Le cose sono peggiorate a causa delle bande armate, che non vogliono il ritorno in patria del premier Henry e minacciano la guerra civile
©Johnson Sabin
Matteo Giusti
09.03.2024 06:00

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito a porte chiuse per affrontare la difficile situazione di Haiti che sembra ormai fuori controllo dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza e l’istituzione del coprifuoco. Il Primo Ministro Ariel Henry si trova ancora a Puerto Rico, dopo che le gang criminali, che dominano la quasi totalità della capitale, hanno preso il controllo dell’aeroporto per impedirgli di atterrare ad Haiti.

Gli Stati Uniti intanto stanno facendo pressioni su Henry perché acceleri la transizione con la creazione di un Governo forte, ma il più importante capo delle bande che controllano l’isola caraibica ha minacciato una guerra civile che si trasformerà in genocidio se l’attuale Primo Ministro rimetterà piede ad Haiti. Insomma, nella regione rischia di esplodere e sfociare in una tragica guerra civile.

Responsabilità e violenze

Nella capitale Port-au-Prince sono infatti le bande a comandare, dividendosi i quartieri e piazzando posti di blocco per gestire la vita dei cittadini. La polizia ormai non esce più dalle caserme e si è asserragliata nei pochi quartieri ancora in mano ai governativi. La situazione nel Paese è grave da mesi, ma gli ultimi giorni la situazione è precipitata. Stazioni della polizia e ospedali sono stati dati alle fiamme e saccheggiati mentre due principali carceri sono stati presi d’assalto per liberare migliaia di detenuti che sono andati a ingrossare le fila delle gang criminali. Scuole e negozi sono chiusi da giorni e nelle strade restano i corpi delle persone uccise negli scontri, stando ai dati dell’Alto Commissariato per i Diritti umani i morti dall’inizio dell’anno sono già 1.200. Flavia Maurello è la responsabile di Avsi per Haiti , un’organizzazione Non Profit che lavora in 40 Paesi, e vive nell’isola da circa 10 anni. «La situazione a Port-au Prince è drammatica, non esiste un luogo che sia davvero sicuro», dice al CdT. «L’assenza del Primo ministro ha scatenato la violenza, ma credo che il suo ritorno sia ormai diventato inutile. Stiamo aspettando da un anno e mezzo che le Nazioni Unite facciano qualcosa, ma dopo il fallimento della Minustah, la missione terminata nel 2017 e accusata di sfruttamento della prostituzione minorile, dubito che torneranno ad Haiti. Lo Stato qui non esiste più, anche tecnicamente tutti i mandati elettorali sono scaduti e nessuno governa il paese. La crisi più profonda è iniziata nel 2018, ma l’assassinio del presidente Jovenel Moise nel luglio del 2021 ha peggiorato le cose. Le bande sono diventate padrone di Haiti e nessuno ha la forza di opporsi». Secondo Maurello, «gli Stati Uniti hanno però una chiara responsabilità in questo, perché dopo il golpe del 2004 hanno smantellato l’esercito di Haiti e adesso esiste soltanto la polizia ed una forza paramilitare, peggiore delle bande stesse. Spesso i poliziotti prendono le armi e si uniscono alle gang perché nessuno paga gli stipendi da mesi». Avsi resta però sul territorio cercando di aiutare una popolazione disperata. «La nostra sede è a Petionville, uno dei pochi quartieri ancora in mano alle forze governative, ma noi lavoriamo nelle bidonville di Port-au-Prince e dobbiamo venire a patti con le bande criminali che controllano il territorio. I nostri progetti educativi e sanitari sono importanti per la sopravvivenza della popolazione e per questo motivo vengono accettati anche dalle gang che ne riconoscono la necessità. Le strutture sanitarie sono tutte al collasso, sovraffollate e manca tutto dai medicinali ai letti perché vengono sistematicamente depredate».

Gli interessi dietro al caos

Ad Haiti è complicato anche capire quali siano i veri sentimenti della popolazione che scende in piazza a manifestare. «Il popolo è allo stremo e segue chiunque prometta di migliorare le cose», prosegue la nostra interlocutrice. «Qui nessuno ha un vero progetto politico e ogni giorno si protesta per qualcosa di diverso. C’è però chi ha interesse a mantenere Haiti nel caos. Io mi chiedo se gli Stati Uniti, che si sono rifiutati di intervenire militarmente, si siano resi conto di cosa significasse far tornare Guy Philippe ad Haiti. Da quando è tornato tutto è precipitato ed è possibile che ci sia lui dietro a questa situazione». In questi giorni Philippe ha formato un’alleanza politica con l’ex candidato presidenziale e senatore Moise Jean Charles creando un consiglio formato da tre persone pronto a prendere il controllo del paese. Per Flavia Maurello pesano anche gli interessi geopolitici dell’area. «Ad Haiti hanno enormi interessi i cartelli della droga messicani che utilizzano il Paese come base per arrivare negli Stati Uniti ed in Europa. Nel traffico di droga sono coinvolti anche molti politici e uomini d’affari haitiani che hanno tutto l’interesse a mantenere lo Stato nel caos. I carichi di droga arrivano da Messico e Colombia e le bande gestiscono la logistica, un business enorme a cui nessuno intende rinunciare». Tutto mentre la popolazione cerca di scappare negli Stati Uniti o nella Repubblica Dominicana e i leader della Comunità dei Caraibi (CariCom) si riuniscono da giorni senza trovare nessuna soluzione per Haiti, lo stato perduto.

Il personaggio chiave

Guy Philippe è un personaggio chiave della turbolenta storia di Haiti. Ex comandante della polizia nella cittadina settentrionale di Cap-Haitien, ha guidato il colpo di stato del 2004 che ha cacciato il presidente Jean-Bertrand Aristide ed è stato poi eletto senatore dopo aver anche partecipato alle elezioni presidenziali del 2006. Nel gennaio del 2017 è stato arrestato dalle forze speciali americane e subito estradato negli Stati Uniti con l’accusa di contrabbando e traffico di droga. Condannato a nove anni per contrabbando, a fine novembre Philippe è stato scarcerato ed è tornato ad Haiti. Al suo arrivo all’aeroporto di Port-au Prince alcune centinaia di persone con indosso magliette che inneggiavano a lui lo hanno accolto calorosamente, dimostrando come non sia stato dimenticato dalla popolazione. «Io sono un patriota e sono l’unico che ha sempre lottato per i cittadini di Haiti – ci racconta orgoglioso l’ex poliziotto –. I miei seguaci mi chiamano padre perché vedono in me l’unica famiglia che hanno mai avuto. Gli orfani, i più poveri e i più disperati credono ancora in Guy Philippe per avere un futuro». Haiti in queste settimane è travolta dalla violenza e le gang sono padrone assolute del Paese. Ma molti si chiedono se il suo ritorno non abbia peggiorato la situazione e che rapporti abbia Philippe con i capi delle gang, soprattutto con il famigerato Jimmy Cherizier, detto Barbecue. «La politica e i loro amici all’estero vogliono dare la colpa al popolo che protesta perché ha fame», dice. «Se ci fosse uno stato forte non esisterebbero le bande che spesso si sostituiscono allo stato. Io voglio una rivoluzione, ma senza armi. Un Governo del popolo e per il popolo. Basta con l’ingerenza degli Stati Uniti e dei grandi latifondisti che hanno saccheggiato Haiti. Tutti i giovani di Haiti mi conoscono e io conosco loro. Molti miei ex commilitoni sono a capo di organizzazioni che guidano le proteste. Io sono ritornato perché la mia gente ha bisogno di essere guidata, la mia è una missione, forse l’unica che può salvare Haiti. Io propugno la disobbedienza civile per cambiare il Paese, qualcuno dall’alto mi ha fatto tornare ad Haiti». Intanto il Primo ministro Ariel Henry non è riuscito ad atterrare ad Haiti, perché le bande criminali controllano l’aeroporto. «Ariel Henry non deve più tornare ad Haiti – tuona l’ex golpista –. Lui è la causa delle violenza di questi giorni. Quelli che impediscono il ritorno di Henry sono patrioti. Pensa di risolvere i nostri problemi facendo venire soldati dall’estero per combattere il popolo, lui è un nemico del mio popolo». Alcuni osservatori ritengono che Guy Philippe punti a diventare il nuovo presidente di Haiti e che avrebbe forti appoggi nella vicina Repubblica Dominicana e in alcuni settori della politica haitiana, come il senatore Moise Jean Charles o l’ex presidente Michel Martelly. «Io penso agli haitiani – continua infervorato Guy Philippe –, ai bambini che muoiono di fame e alla violenza che si è scatenata nelle strade. Dobbiamo cacciare questi politici corrotti e lavorare con la Repubblica Dominicana, non dobbiamo più fidarci degli Stati Uniti che con la scusa del traffico di droga incolpano me e gli haitiani di tutto. In tanti stanno disertando da polizia e forze speciali per unirsi alla mia lotta ed insieme stiamo costruendo il movimento del futuro del nostro paese. Se il popolo vorrà che io lo guidi non mi tirerò indietro».